Il paesaggio della transumanza: i tratturi
Verso il 29 settembre, in occasione della festa di San Michele, le greggi transumanti, per le vie armentizie, venivano sospinte dai monti al piano, per trascorrervi i mesi invernali e risalire poi all’avvicinarsi dell’estate, in prossimità dell’8 maggio, giorno dell’apparizione dell’arcangelo Michele presso la grotta di Monte Sant’Angelo.
Questi due importanti pellegrinaggi sul Gargano segnavano l’apertura e la chiusura del periodo della transumanza, l’esodo delle greggi che dall’Abruzzo, dal Molise, dalla Campania e dalla Basilicata si spostavano in Puglia.
Greggi di migliaia di pecore venivano guidate dal massaro, il capo della masseria transumante, l’uomo di fiducia del proprietario, seguito nella gerarchia da altre figure: i pastori che, aiutati dai pastoricchi, si occupavano della custodia delle greggi; i caciari o casciari, gli addetti alla lavorazione del formaggio; i butteri coadiuvati dai butteracchi, i conduttori di cavalli, asini o muli, responsabili del trasporto delle masserizie; i carosatori o tosatori, incaricati di tosare le pecore e i guaglioni o gualani, i giovanissimi garzoni apprendisti.
Transitavano per mezzo di una complessa rete di antiche piste naturali, denominate tratturi e tratturelli. I tratturi erano vie erbose principali, larghe 111 metri – corrispondenti a 60 passi napoletani – mentre i tratturelli, strade secondarie o di collegamento, avevano una larghezza di 37, 27 o 18 metri. Entrambi venivano individuati con il nome delle città di origine e di destinazione. Ulteriori arterie di collegamento erano costituite poi dai bracci. Attraverso questa rete viaria, dotata lateralmente anche di riposi, ovvero di larghi spazi a pascolo destinati alla sosta degli animali, venivano raggiunte le strutture per la permanenza temporanea delle greggi, le poste e gli jazzi.
Era questo lo scenario in cui si svolgeva la transumanza, che nonostante le origini assai più antiche – già praticata dai sanniti e poi consolidatasi con i romani – fu riorganizzata e regolamentata solamente con gli aragonesi, mediante l’istituzione della “Regia Dogana della mena delle pecore” nel 1447 ad opera di Alfonso I d’Aragona, il quale mise su una complessa macchina amministrativa con la funzione di gestire il flusso migratorio delle greggi sotto l’aspetto giuridico, economico, del controllo e della sorveglianza.
La migrazione, infatti, era resa possibile solo attraverso il passaggio obbligatorio dalla dogana, che aveva sede inizialmente a Lucera, poi a Foggia. Questo organismo acquisiva terreni per il pascolo e li dava in concessione ai proprietari delle greggi transumanti, i locati, dietro pagamento di un canone annuo di locazione, la fida. I locati, i concessionari della locazione, oltre all’utilizzo dell’infrastruttura armentizia, usufruivano di altri privilegi, ma avevano anche dei precisi obblighi da rispettare.
Assieme all’estensione di terreno per il pascolo, ai locati, veniva assegnata anche, la posta o lo jazzo, la struttura temporanea per lo stazionamento stagionale, con l’obbligo di utilizzare la stessa pure negli anni successivi. Veniva garantito loro, però, solo il pascolo invernale, cosiddetto vernotico perché poi la proprietà tornava in possesso dei legittimi proprietari che potevano esercitare la statonica, cioè il pascolo estivo.
I locati avevano il vincolo di vendere e commercializzare i propri prodotti, ovvero la lana ottenuta dalla tosatura delle pecore, i formaggi prodotti e gli agnelli appena nati, solo ed esclusivamente alla Fiera di Foggia che iniziava l’8 maggio e poteva durare fino ad agosto.
La vigilanza sui tratturi era affidata ai lupi della dogana, squadre di cavallari che scortavano i locati alle loro poste, proteggevano da assalti e rapine i pastori in transito e impedivano loro di ripartire senza prima aver pagato la fida dovuta. Questo particolare corpo di vigilanza si preoccupava anche di far mantenere l’ordine e la pulizia sui tratturi, dove era rigorosamente vietato far crescere vigne, arbusti e seminati. Per i trasgressori erano previste pene severe.
L’attività di controllo sulla rete tratturale, veniva invece svolta dagli agrimensori, tecnici che attraverso l’operazione della “reintegra” provvedevano alla verifica delle zone eventualmente usurpate.
Questo regime protezionistico del demanio armentizio durò fino al 1806 quando Giuseppe Bonaparte emanò una legge che ebbe come effetto immediato l’eliminazione della dogana, la decadenza di tutti gli antichi privilegi dei locati e la fine della transumanza istituzionalizzata, considerata alla stregua di un retaggio feudale.
Nell’anno 1908 fu costituito il “Commissariato per la Reintegra” dei tratturi, il primo tentativo di tutelare i percorsi della transumanza. Fu stilato un elenco completo delle vie erbose, ma l’intero progetto si interruppe allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Le architetture della transumanza: gli jazzi
L’origine del termine jazzo è piuttosto incerta. Deriva, probabilmente, dal latino “iaceo“, che significa giacere, forse proprio ad indicare lo stazionamento delle greggi transumanti in quel tipo di struttura.
Lo jazzo indica una struttura complessa costituita oltre che dallo stabbio, cioè dal recinto vero e proprio o dall’insieme dei recinti, anche da una serie di locali necessari allo svolgimento dell’attività pastorale: la spenna ovvero l’ovile, il vano per il riparo delle pecore; il casone, il ricovero dei pastori, ma al contempo, per la presenza del grande focolare, anche luogo della preparazione dei formaggi; il casolare, ambiente adibito alla conservazione dei formaggi; il lamione, spazio di deposito per attrezzi vari o stalla per bestie da soma; il mungituro, il posto dove venivano munte le pecore e la piscina, la cisterna per la raccolta delle acque meteoriche.
Lo jazzo generalmente è costruito in pendenza, in modo da favorire lo scolo delle acque piovane e dei liquami ed evitare il logorio della lana delle pecore. Solitamente orientato secondo l’asse est – ovest per garantire non solo il riparo dai freddi venti settentrionali ma anche una migliore condizione di soleggiamento con l’esposizione a Sud.
La struttura dello stabbio è costituita da un muro perimetrale di recinzione, alto e robusto, suddiviso internamente da altri muri per creare ulteriori scomparti, gli addiacci. La costruzione realizzata in pietra a secco, ricavando il materiale direttamente sul posto, con lo spietramento del suolo, prende il nome di macera.
Il muro perimetrale presenta quasi sempre un dettaglio molto interessante, funzionale ed estetico allo stesso tempo, una specie di coronamento superiore che prende il nome di paralupi, perché impediva l’arrampicarsi ad animali predatori come lupi e volpi, ottenuto con una sequenza di lastre di pietra infisse orizzontalmente nella muratura.
Il tratturo Barletta-Grumo
I segni di questo articolato complesso infrastrutturale legato alla transumanza sul nostro territorio sono testimoniati soprattutto dal passaggio del tratturo Barletta-Grumo e dalla presenza di alcuni jazzi sulla Murgia; oltre che dall’esistenza, anche se piuttosto marginale, del tratturello che portava alla città, corrispondente alla Via Traiana.
Il tratturo Barletta–Grumo è riportato nella “Carta dei Tratturi, Tratturelli, Bracci e Riposi” redatta dal “Commissariato per la Reintegra” dei tratturi di Foggia, ed è contrassegnato col numero 18. Ad esso s’innesta, nel comune di Ruvo di Puglia, ma quasi al limite del confine con Bitonto, il tratturello Canosa Ruvo, segnato nella Carta dei Tratturi col numero 19, mentre all’incrocio delle due piste vi era il Riposo Colapazzo, indicato con la lettera H. Il tratturello della Via Traiana, invece, è indicato con il numero 94.
Lungo 124 km e largo 111 metri, il tratturo Barletta – Grumo attraversa i territori di Barletta, Andria, Corato, Ruvo di Puglia; passa di traverso sull’agro bitontino, segnandone per un lungo tratto anche il confine comunale; prosegue per Toritto e termina nel comune di Grumo Appula, a poco più di un chilometro dall’intersezione con la strada statale 96. È tra i più importanti e meglio conservati della vecchia provincia di Bari e in alcuni punti è segnalato con cippi che riportano le iniziali R.T. che stanno ad indicare “Regio Tratturo”.
Nel paesaggio rurale bitontino, il passaggio del tratturo segna anche il cambio di disegno del tessuto agrario. L’ordito regolare dei campi con le colture arboree, che caratterizza fortemente la fascia premurgiana, dopo il tratturo inizia a fondersi con quello regolare dei seminativi, per cedere il passo, oltre il tracciato dell’Acquedotto Pugliese, ai contorni sinuosi delle aree coltivate, nelle lame, sui fondi degli impluvi.
Allo stato attuale il tracciato del tratturo, per quanto facilmente riconoscibile, purtroppo, non conserva più come un tempo la continuità dei suoi limiti, anzi questi risultano in diversi punti alterati. Infatti, dopo un lungo periodo di sdemanializzazione, la sezione della pista erbosa appare oramai con il suolo interamente occupato, non solo da campi di proprietà privata, ma anche dal passaggio, al suo interno, di alcune strade.
La stessa provinciale 89, ad esempio, ovvero la strada che giunge da Mariotto, passando dalla Bellaveduta, quando piega e prosegue per Mellitto si sovrappone in parte al tratturo, così come la strada che va nella direzione opposta e pure la fontana posta sul bivio che si trova al centro della larghezza del tratturo.
Vi sono poi alcuni edifici, il cui posizionamento oggi sembra piuttosto casuale, che una volta si trovavano proprio sui limiti della pista erbosa. La Taverna della Lucertola, a circa 3 km dal Riposo Colapazzo e la Masseria Domenico Lucia, poco distante, ne sono un esempio.
Gli jazzi nel paesaggio murgiano bitontino
La presenza di alcuni jazzi, trasversalmente collegati al tratturo Barletta – Grumo, secondo un sistema a pettine, determinato dalla pista erbosa e dalla confluenza delle lame in cui queste architetture si sono insediate, organizza e connota il paesaggio murgiano bitontino.
Nonostante queste lame siano all’interno dello stesso territorio e poco distanti l’una dall’altra è possibile apprezzare i cambi di paesaggio tra loro.
Gli jazzi presenti nell’area murgiana del territorio bitontino, ordinati da ovest a est secondo la longitudine, sono i seguenti: Jazzo Vecchio, Jazzo della Ficocchia, Masseria Pietre Tagliate, Jazzo di Fabbrica, Jazzo di Don Ciccillo e Jazzo della Città.
Jazzo Vecchio è quello più distante dal tratturo, isolato e difficile da raggiungere. Ha un impianto molto essenziale, formato solamente da un pagliaio, che fungeva forse da casone e due recinti, semplici addiacci privi persino dell’ovile.
Jazzo della Ficocchia è situato nei pressi della confluenza della Lama Calambise con la Lama Ficocchia. Il suo impianto originario è composto da cinque recinti, due dei quali hanno un unico ovile, mentre solo uno dei due contiene un altro spazio; un lungo vano, forse un lamione, addossato al muro anteriore dei recinti e tre pagliai separati e distinti tra loro. Successivamente il complesso è stato arricchito da altri corpi di fabbrica tutti liberamente disposti: un nuovo casone, una cisterna, tre dimore rurali dell’Ente Riforma e due rustici di pertinenza.
Masseria Pietre Tagliate sorge, quasi alla confluenza di tre lame, in un luogo straordinario dal punto di vista ambientale, tra i più belli del territorio comunale di Bitonto, ai piedi di un costone roccioso caratterizzato da una conformazione carsica che dà il nome sia alla contrada che alla masseria. È uno jazzo a tutti gli effetti, perché è una masseria di pecore e non una da campo, forse un tempo abitata in modo permanente. La struttura è composta da otto recinti, tre dei quali hanno gli ovili; un casone, sul davanti, di recente costruzione; un lamione lunghissimo sopra, suddiviso in vari ambienti, con un forno sul lato del fronte principale e un pollaio sulla testata opposta; dietro quest’ultimo, infine, un grande mungitoio, con due recinti semicircolari sui lati lunghi.
Jazzo di Fabbrica è posto sul proseguimento della provinciale 36, la strada che dal tratturo porta verso Torrequadra, su di un’area pianeggiante. Della struttura originaria, purtroppo, non rimangono solo che resti, affiancati da una nuova costruzione realizzata di recente secondo tecniche costruttive diverse.
Jazzo di Don Ciccillo, posizionato dove ha origine una piccola lama, è lambito dal tracciato dell’Acquedotto Pugliese. Si compone di due parti distinte tra loro. La prima è costituita da due recinti, entrambi con l’ovile sul fondo; alcuni rustici di pertinenza che articolano una delle testate dell’ovile insieme al recinto perimetrale e un pagghiarone, cioè un grande pagliaio che funge da casone, posto sul davanti, che interrompe la continuità sia del recinto perimetrale sia di quello che divide i due stazzi. L’altra parte, invece, è composta da un solo recinto, libero sul fronte, ma orlato sui restanti lati da un mungitoio con i suoi recinti, da un altro spazio a questi affiancato e da un piccolissimo vano, sul retro. L’impianto attuale della struttura sembra privato di alcune sue parti rispetto a quello originario.
Jazzo della Città si trova a breve distanza dall’omonima masseria, cioè quella che caratterizza, insieme alla cisterna, lo spiazzo del Bosco di Bitonto. È composto da tre recinti, di cui solo quello centrale ha l’ovile sul fondo, in parte sconfinante anche nei due laterali e insieme al recinto di destra è suddiviso ulteriormente in senso longitudinale; un grande pagliaio, un casone, centrato sul fronte, interrompe il muro perimetrale e poi distaccato e isolato un altro pagliaio.
Tutela e salvaguardia
Con l’istituzione del Parco dell’Alta Murgia, il cui perimetro nel territorio bitontino è definito dal tracciato dell’Acquedotto Pugliese, solo quattro degli jazzi sono rientrati al suo interno, mentre gli altri due, cioè Jazzo di Fabbrica e Jazzo Don Ciccillo, ricadono nella fascia di rispetto del Parco. Sono invece riportate come architetture rilevanti del Parco solo Jazzo Della Ficocchia e Masseria Pietre Tagliate.
Per quanto concerne i tratturi, invece, la Puglia ha inserito i percorsi armentizi nel proprio demanio con una legge regionale del 1980, sottoponendoli, quindi, alla tutela delle cose di interesse artistico e storico prevista dalla legge n. 1089 del 1939. Successivamente ha istituito il “Parco dei tratturi della Puglia” con una legge regionale nel 2003.
A marzo di quest’anno è stata presentata da parte del ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali la candidatura de “La Transumanza” come patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco, però dovremo aspettare ancora fino a novembre 2019 per conoscere l’esito dal comitato che vaglierà il dossier.
Di certo questa candidatura rappresenta un passo importante per il riconoscimento del patrimonio culturale, sociale e ambientale legato al mondo della transumanza, sia per la valorizzazione della rete tratturale che per il recupero delle architetture significative ad essa collegata.
In quest’ottica sarebbe auspicabile il recupero di Masseria Pietre Tagliate, lo jazzo più bello presente sul nostro territorio, straordinario nella sua architettura, con un impianto veramente esemplare, inserito fra l’altro in un contesto ambientale davvero unico.