Un cartello sbilenco lasciato al muro, una chiglia rovesciata, una sedia zoppa. Anche l’oggetto più insignificante parla lungamente di persone, abitudini, leggende. In terra ellenica le rocce che emergono dal mare hanno caditoie. Dalle grinze della pietra trasudano leggende, echi di memorie. Le dicerie si vestono di verità popolare. I fatti si tramandano, da padre a figlio, da abitanti a visitatori, da parenti a sconosciuti. Così capita di conoscere la storia di un abitante di Castelrosso, l’ultima isola del Dodecaneso.
Lo chiamavano “il gallo” perché il suo padrino di battesimo era francese (la Francia in greco moderno si dice “Gallía”). Ma quell’appellativo fatalmente diventò il vestito perfetto di un comportamento vispo e insolito. Lo conoscevano tutti. Aveva negli occhi i segni della guerra e nel cuore la tristezza di chi sul campo insanguinato ha perso gli amici più cari. Aveva nella testa un groviglio inestricabile di spaventi, incisi a suon di bombe e spari di armi da fuoco.
Chiuso in una corazza di note, il peso del passato sorprendentemente diventò propulsione di uno spirito vitale. Di giorno il suo viso scarmigliato, che incorniciava un naso sempre arrossato, poteva sbucare per caso da un viottolo o da un bar ma, quando le case si scaricavano di colore, perfino le luci dei lampioni s’accendevano di esuberanza. Le note stridule del suo violino si udivano da un capo all’altro dell’antico porto.
Lo strumento nudo che portava con sé, miagolava insieme ai gatti randagi. L’invadenza del suonatore dell’isola non risparmiava nessuno. La sua sagoma minuta e alticcia era il terrore dei più piccoli e il passatempo degli stranieri. Soleva chiedere la mano a tutte le giovani incontrate nel suo incedere impreciso. Tracannava pinte di birra e metteva in scena uno spettacolo improvvisato ogni santa sera. Manteneva l’impegno con la costanza di gregario della luna.
Si narra che una donna, di nome Cleopatra, amasse ballare al ritmo sbilanciato delle sue corde. Durante la festa sotto le stelle, colpi sonori sui tavolini s’accavallavano al battito di mani in un tempo di smisurata allegria. Il Gallo tuonò raucamente per anni fin quando un giorno di vento, mentre strafatto di alcool pisciava vicino al molo, un’onda anomala e maligna lo travolse facendogli battere il capo allo scoglio. Chi l’ha conosciuto ancora oggi assicura che dietro quella condotta bislacca ci fosse un pensiero distinto e brillante, l’anima sapida di un uomo di mare, lo stesso mare che ha messo fine alla sua strampalata esistenza.
Nella stretta materna del Mediterraneo, un’altra vicenda emerge da quell’unico abbraccio. Manolis era un pescatore. Manolis, sull’isola, era il pescatore. Ma non sapeva nuotare. Nessuno ha mai saputo il perché. Ciononostante la sua diffidenza verso l’acqua non gli creò problemi. Anzi, era uno dei più abili a portare pesce al mercato. La sua dimora dimessa era a pochi passi dalla bitta dove ormeggiava la barca, affacciata alla banchina dove srotolava le reti colorate.
Lembi rari di nuvole nel cielo e riflessi di vita nell’acqua cristallina. Muri intrisi di sale una porta sempre aperta. Per decenni i suoi cesti giunsero a riva stracolmi. Residenti e passanti cucinarono tonni e aragoste portati da quell’uomo riservato. E il pescatore affrontò l’umore del clima e della gente. Sulla piccola terra si parlava di tutti e di tutto. Anche la sua vita libera diventò molto presto oggetto di maldicenze. Un nuovo amore e la svolta nel suo pensiero bastarono a costruire una nomea infelice.
Tuttavia, come il gallo, neppure Manolis si curò del modo in cui lo guardavano. Rimasto orfano di affetto e buona fede, portò avanti l’antica pratica della pesca con la stessa straordinaria abilità. Diventato più lento, facilmente si mostrava sornione seduto a filare reti. Talvolta era fermo all’ingresso dell’abitazione dove, sul fondo della prima stanza, primeggiava una gigantografia del Che. I suoi silenzi aumentavano giorno dopo giorno come le pieghe della sua pelle, celando le asprezze del mestiere, pregno di partenze col cielo buio, di inquietudini affrontate durante anni di uscite in mare aperto.
Dopo aver trascorso tutta la vita, il pescatore ora non è più sull’isola. Ha salutato il mondo senza preavviso ma con la solita pacatezza impressa al centro di un’ultima cartolina. Si vocifera che negli ultimi tempi stesse programmando la fuga in un paese mediorientale, ulteriore svolta di una vita tranquilla solo in apparenza. La sua casa sul fronte del porto è stata ristrutturata. Quel tipico edificio con la loggia verso la Turchia ha ora una faccia imbiancata e brillante ma meno autentica. Non ricorda più quell’uomo dal volto disarmonico che non aveva imparato a nuotare ma al mercato arrivava sempre col pesce migliore.
Le storie del gallo e del pescatore sono circondate da un’insolita solitudine. Nelle loro vicende si ritrova l’isola, l’approdo, il respiro del tempo. E quando a sera il mare sposa l’indaco e si corona di stelle, sulle onde navigano i sogni. I racconti hanno la voce del vento e gli occhi, coi voli di quelle mute parole, totalmente amano l’indefinito orizzonte.
Nelle foto, di Alessandro Robles, alcuni scorci dell’isola di Castelrosso in Grecia