Non è affatto detto che una società si renda lucidamente conto degli avvenimenti che sta vivendo. Alle volte i problemi sono troppo vivi, le passioni possono aver preso il sopravvento e impedire un’analisi che sia anche solo vagamente ragionevole. Solo in un secondo momento possono poi emergere fatti determinanti e gravissimi, che permettano una valutazione completa. Insomma, pur non essendo di fronte a un fenomeno automatico e necessario, il senso comune – non filtrato dall’analisi storica – può mancare di esaminare col giusto distacco gli avvenimenti più attuali.
In questi mesi abbiamo sentito parlare di migranti e sbarchi praticamente ogni giorno. È il tema che è stato scientificamente imposto all’attenzione della popolazione, a scapito di qualsiasi altro. Ne parlano i politici, gli opinionisti, i giornali, le televisioni, i social media. Ogni giorno in prima pagina o quasi. E se non c’entra nulla con l’argomento, si trova il modo di infilarcelo comunque.
Di fronte a un tale bombardamento di informazioni, non si può pensare di non riuscire a formarsi un’opinione, non si può pensare di poter sospendere il giudizio. Ognuno di noi sa cosa sta succedendo: a cambiare possono essere solo le interpretazioni, le opinioni, le posizioni.
Prima di leggere Appunti per un naufragio di Davide Enia potevo avere la pretesa – quantomeno a livello inconscio – che le cose stessero così, di saperne qualcosa della cosiddetta crisi dei migranti. Alla fine delle 211 pagine di questo libro, che ho divorato nell’arco di ventiquattr’ore, ho capito che invece no, di tutto questo non sapevo davvero niente.
Non ne sapevo nulla di quello che è successo a Lampedusa. Non ne sapevo nulla di cosa significhi davvero soccorrere qualcuno in mare, del lavoro difficile della Capitaneria di Porto e della Guardia Costiera. Neppure immaginavo cosa potesse voler dire essere uno dei cinque sopravvissuti su ottanta occupanti di un gommone, vedendo morire i propri compagni ad uno ad uno.
Questi sono solo alcuni degli elementi che non ci giungono mai, nel fiume di parole che quotidianamente ci inonda su questi temi.
Nel mezzo delle agili pagine di Appunti per un naufragio, lo stesso Davide Enia spiega però che ne sapremo davvero qualcosa solo quando i protagonisti di questi naufragi saranno loro stessi a parlare, a raccontarci la storia che hanno vissuto, “pagando un prezzo inimmaginabile”.
Nonostante parli così tanto di morte e di morti, Appunti per un naufragio non è affatto un libro “pesante”, cupo, od opprimente. Sia perché la vita fa sempre da contraltare al suo opposto, sia perché – dopo aver dato loro il giusto peso – anche i momenti più tragici vengono delicatamente ma rapidamente stemperati.
Cuore di questo libro sono una serie di interviste ai veri protagonisti dei salvataggi in mare. Altri avrebbero potuto presentarle in una fredda forma giornalistica, ma l’autore ne ha invece preferita un’altra, più originale. In Appunti per un naufragio le testimonianze sono immerse tra un ricordo e una battuta, non di rado ci si ragiona “davanti a un caffè”. Si intrecciano ad altri temi della quotidianità: il rapporto tra padre e figlio, la famiglia, la malattia, la Sicilia più verace.
Davide Enia, palermitano, è drammaturgo, attore e romanziere. Col romanzo Appunti per un naufragio, pubblicato nel 2017 e ormai alla terza ristampa, ha vinto il Premio letterario internazionale Mondello 2018. Primo piano lo ha intervistato, e lui ha risposto senza fare sconti a nessuno.
Ovviamente nessuno ha la sfera di cristallo, ma quando ha cominciato a scrivere Appunti per un naufragio, avrebbe mai immaginato che la situazione potesse arrivare ad esasperarsi ulteriormente, fino a questo punto?
Dovremmo, prima di tutto, accordarci su un vocabolario comune. Quale sarebbe la “situazione”? Quella relativa alla permanenza in mare? O l’uso strumentale dei corpi degli esseri umani per fini politici o ideologici? Quello che mi lascia continuamente allibito è il considerare il Mediterraneo come il momento cruciale della vita di queste persone, senza averle mai ascoltate, senza avere mai dato loro voce, senza aver chiesto loro i perché della fuga dal paese d’origine, quanto è durata la traversata nel deserto e che cosa è accaduto alla loro carne nelle carceri libiche. L’esistenza di queste persone, invece, diventa un problema quando si trovano in mare, nonostante i numeri siano esigui e s’è creato un clima da emergenza senza che questa emergenza, numeri alla mano, esista davvero. Ciò che invece era abbastanza preventivabile è l’atteggiamento in malafede dell’Europa, che dimostra la sua natura predatoria e ipocrita in maniera netta e inequivocabile.
Lei spiega che per comprendere appieno la loro verità, è necessario che la storia della migrazione sia raccontata da coloro che sono partiti. E che è solo questione di tempo perché questo avvenga. A un anno dalla pubblicazione, sembra più lontano o più vicino quel giorno? Cosa deve cambiare, invece, perché noi si possa essere in grado di comprendere quella storia?
Credo che il vero cambiamento ci sarà quando muterà il pregiudizio culturale con cui si osserva la realtà. Quella europea è una visione neocoloniale e paternalista, abbeverata da una doppia morale continua, in cui si continua a non parlare dello sfruttamento delle risorse di interi paesi, dello smercio di armi che causano guerre, della manodopera a bassissimo costo rappresentata da queste persone, dei marciapiedi riempiti dai corpi di ragazzine africane per soddisfare la rapacità sessuale del maschio europeo.
Inoltre, si specula e si argomenta senza mai avere dato voce a questa moltitudine in movimento, fosse anche solo per capirne le urgenze e la storia.
Che aria si respira a Lampedusa, in questi giorni?
C’è un profondo sconforto. Il mare ha da sempre una legge: soccorrere chi è in difficoltà, riportandolo a terra. Le persone di mare, giustamente, non capiscono come un problema politico possa violentare un universale umano, l’aiuto a chi rischia la pelle tra le onde. C’è dolore e la profonda convinzione che, del mare e dei suoi uomini, le persone che pontificano in questi giorni non ne sanno nulla.
Le foto di Davide Enia impiegate per questo articolo sono opera di Gianluca Moro.