“La mafia uccide, il silenzio pure”

Il ricordo di Michele Fazio può avere “un senso”, al di là di ogni retorica, se serve a riflettere sulle nuove mafie e sull’impegno culturale per rifondare la società

Avrebbe avuto 33 anni Michele Fazio, una famiglia, forse dei figli o, semplicemente, il lavoro dei suoi sogni. Ma a Michele, diciassette anni fa, è stata tolta questa possibilità, gli è stato negato il futuro.

Veniva ucciso per sbaglio, in una calda sera d’estate, tra i vicoli di Bari vecchia. Aveva solo 16 anni, l’età della spensieratezza, dei sogni che prendono corpo, degli orizzonti che iniziano a schiudersi. La sua colpa è stata soltanto una: trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, vittima di una guerra tra clan che insanguinava il cuore della città, di un proiettile vagante che aveva un altro destinatario. Michele non ha potuto scegliere.

Il suo sacrificio involontario, tuttavia, non è stato vano. Come ha sottolineato il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, in occasione della commemorazione avvenuta pochi giorni fa, il 12 luglio del 2001 rappresentò un vero e proprio spartiacque, che segnò un prima e un dopo nella storia del capoluogo.

Da quel terribile omicidio molte cose lentamente sono cambiate. Bari ha iniziato a leccarsi le ferite, a rialzare la testa, a cercare di prendere le distanze da un sistema cannibale che non faceva distinzioni tra vittime e carnefici.

Se pensiamo, però, che la battaglia sia stata vinta commettiamo un errore molto ingenuo. La mafia oggi non è stata debellata come si può fare con un virus. La strada da percorrere è ancora molto lunga, a tratti in salita, complessa: bisogna stare al suo passo, cambiare gli strumenti con cui combatterla.

Le mafie tutte hanno infatti trasformato il loro modus operandi, privilegiando il basso profilo e insinuandosi come una piovra all’interno del sistema politico-economico, mettendo radici in ogni strato e in ogni livello tanto che è davvero difficile scovarle.

La connivenza è molto più pericolosa di un colpo di pistola. L’omertà fa più rumore di una bomba. È finita, infatti, l’epoca delle stragi, degli attentati spettacolari ai giudici, capaci di indignare l’opinione pubblica e farla schierare in automatico tutta dalla stessa parte. Adesso, la mafia ha invece capito che per sopravvivere deve spostare i riflettori altrove, lavorare sotto traccia e in silenzio.

In quest’ottica ricordare i morti di mafia, affinché non finiscano dispersi nell’oblio, non è soltanto un modo per non dimenticare, ma deve essere un monito per mantenere vigile l’attenzione. Nello stesso tempo, tuttavia, occorre andare oltre l’aspetto commemorativo, e per fare ciò è necessario, prima di tutto, depurare queste occasioni da quella retorica spicciola, perbenista e stucchevole che le avvolge.

Bisogna recuperare il significato profondo di queste manifestazioni, chiedersi se hanno ancora un senso, se gli atteggiamenti restano immutati, se c’è sempre la voglia di sopraffare l’altro e di aggirare le regole.

Ora più che mai è opportuno, quindi, un cambiamento radicale nelle coscienze, cambiamento che può avvenire soltanto attraverso un lungo processo culturale che passi dal recupero dei valori fondamentali della convivenza civile fino a un modo nuovo di fare politica.

L’educazione alla legalità e al rispetto dell’altro, del diverso, è il primo tassello di questo percorso che deve coinvolgere le nuove generazioni alle quali non bisogna mai smettere di raccontare che un futuro diverso è possibile e che può essere costruito attraverso il confronto e il dialogo, senza voltare la testa dall’altra parte.

Perché come diceva Peppino Impastato “la mafia uccide, il silenzio pure”.