Enzo Bearzot era un condottiero nobile, un uomo di poche e ponderate parole. Il suo volto scarno su un fisico asciutto, riapparso in immagini dove la grana della stampa ammorbidisce i contorni, ci rimanda a un’epoca che non c’è più.
Era l’alba di un decennio che prometteva grandi cambiamenti, dopo il buio del piombo. Era l’alba della nostra adolescenza. Ci sono fasi della vita che tracciano l’anima di verità indissolubili. Il tempo scandisce i passi col ritmo dei sogni. E ci credi davvero. In quegli anni, la fede calcistica era spesso l’eco dei proclami degli amici vivaci, quelli più vicini.
I nomi dei calciatori si leggevano sulle figurine che profumavano di una miscela inconfondibile di colla e carta (odore che ancora capita di trovare in certe confezioni e che coglierebbe d’improvviso anche una fragile memoria, per le profonde emozioni che ha potuto imprimere nell’anima).
C’era la voce di un compagno di scuola elementare che, passando fra i banchi alla “ricreazione”, quasi cantilenava il nome dell’album in cerca di qualcuno disposto a barattare i mezzibusti autoadesivi. Ignorando una incomprensibile “tilde” sulla “n”, chiedeva a tutti: «scambio le figurine di espana ottantadue». La cosa rallegrava doppiamente. La sua richiesta buffa ricordava l’arrivo di un grande e straordinario evento a fine anno scolastico.
Ai tempi dell’ingenuità il calcio era per noi quell’album che finiva per stropicciarsi per quanto veniva sfogliato e piangeva i pochi riquadri rimasti vuoti, mentre i doppioni crescevano a vista d’occhio. C’erano le domeniche del calcio e le squadre di club con giocatori tutti italiani e le schedine.
Ma la Nazionale era un’altra cosa. Univa tutti come alle feste e ai cenoni in famiglia. Anzi, di più. Il campionato del mondo poteva farti mescolare a gente sconosciuta per gridare insieme davanti a un televisore enorme, bombato e squadrato, uno schermo stretto e indefinito che dava largo spazio all’immaginazione. E questo capitò anche a noi quell’anno.
Tutto si svolgeva all’inizio dell’estate. Estate che iniziava con il mare. Non era necessario attendere un ritaglio negli impegni senza stagione, come sarebbe accaduto dopo la maturità. La fine degli studi coincideva con l’avvicinamento alla poco lontana spiaggia. Cinque chilometri da percorrere giornalmente per godere del sole e delle onde al quartiere di Santo Spirito. Il nostro mare, ultima località a nord del territorio barese.
Scogli irregolari e alghe affioranti come insalate. Afa pesante e un vento di maestrale pronto a cacciarla via. Passi trascinati di ciabatte di legno e lente pedalate appena il sole addolciva l’energia dei suoi raggi. L’invito del gelataio che ti vendeva il cono o la coppa “au limòn” per poche centinaia di lire. Un porticciolo di barche, lidi e sciale ad accompagnare e orientare il cammino.
Il mare di fronte a tante finestre, case basse, un parapetto di ferro corroso dal sale e ancorato alla pietra. Il mare si viveva allo stabilimento balneare dell’Aeronautica, dove entravamo come parenti di uno zio ufficiale. Giochi a carte e a nascondino. Granchi da catturare col retino quando uscivano dagli anfratti delle rocce e uno strato viscido come sapone sulla gettata di cemento.
Mareggiate e bandiere rosse. Giovani avieri e infermeria che puzzava di mercurocromo. Un lido di cabine biancoazzurre, il ghiacciolo al gusto “cola” e l’acqua minerale comprata a bicchieri. Le scatole di polistirolo che emanavano il calore inebriante delle vivande nelle stagnole. E noi a cercare il cognome per dare inizio al rito più atteso. Voglia di innamorarsi di tutto, di tutte.
La curiosità per l’altro sesso, il sorriso di una bambina con l’apparecchio. La delusione per un invaghimento mai corrisposto. L’odore di forno appena acceso che dal ristorante vicino arrivava alla spiaggia, allagando di buonumore il cuore all’imbrunire. Una immensa scena di favole vere. Gli amici che non rivedrai più o ritroverai molti anni dopo e con freddo stupore sul profilo di un social network.
Luglio era il mese del mare, agosto contava meno. Spesso eravamo altrove, magari in montagna, a prendere aria pura e a purificarci dai veleni della città. A luglio anche quell’anno eravamo in spiaggia. E la partita più bella era di pomeriggio, Italia contro Brasile. Il giorno della verità. Avevamo superato l’Argentina di Maradona, Kempes e Passarella. Ma col Brasile era il massimo.
Nell’area mensa, coperta di canne, allestirono il tifo. Un grande televisore posato forse su un tavolo e le sedie pieghevoli ad accogliere i bagnanti con gli occhi rapiti, in parte stupiti e in parte scaramantici per la vicinanza di uno storico traguardo. Non era chiaro quanto si riuscisse a cogliere delle azioni di quell’incontro ma l’occasione rese irripetibile un giorno al mare come tanti altri.
Si sentivano i commenti degli uomini in costume da bagno sovrapporsi a quelli scanditi da Nando Martellini. Il Brasile schierava i suoi fuoriclasse, Zico, Cerezo, Junior e il dottor Socrates. Era molto coinvolgente osservare il gioco di Eder per le sue incursioni da ala sinistra e per il tiro fortissimo. Sguardi lucidi, vittoria accarezzata e un lampo di delusione al tiro di Falcao. Finché il nostro Pablito riuscì a guastare la festa sudamericana.
Tutto è noto. Ma sulla spiaggia le grida della vittoria furono avvolte da un inedito alone di luce. Sembrava di scorgere all’improvviso il sole fermo a un punto definito del cielo; una gioia bambina, rapire il più impensabile dei sogni; un vasto orizzonte, aprirsi alle aspettative; il mare, diventare solo blu come agli alti fondali dove non potevi arrivare.
Le ultime due partite furono disputate di sera ed eravamo a casa. Liquidate Argentina e Brasile, tutto finì sull’onda di un entusiasmo crescente. L’Italia salì sul tetto del mondo e noi insieme a quei ragazzoni con la maglia azzurra che assomigliava a un pigiama. I carri dei contadini si caricavano di persone come quelli di carnevale. Le piazze venivano inondate da auto e la gente dal balcone sembrava un fiume impazzito. E così, per giorni, quel Mondiale marcò l’anima di noi ragazzini.
Lo portammo stampato nella mente e nelle parole per tutta l’estate. Ce lo portammo dal mare sulle cime delle Alpi. Ce lo portammo nel letto, insieme ai sogni di mille altre partite vittoriose e immaginarie. La terza stella era lassù e la potevamo ammirare. Ogni cosa era tricolore, per le strade e nelle case. Il foglio di carta grossolanamente colorato di verde e di rosso con i pennarelli a spirito che tingevano anche le mani.
Le improvvisazioni della gioia, le bandiere fatte con i tessuti cuciti recuperati da vecchi indumenti. Nessun commercio, solo voglia di festeggiare. Grandi come bambini e bambini felici di essere bambini. Tutti insieme, per una volta.
Verde, bianco, rosso. E azzurro. Un azzurro sfumato all’infinito. Un azzurro vastissimo, un abbraccio del mare. Il mare ritrovato, come sempre, a settembre. Dolce come il ritorno e amaro come la nostalgia. Il morso allo stomaco per la vista dell’acqua quieta di fine estate.
Settembre era il mese più bello, il tempo del saluto. Meno minuti di luce, maggior desiderio d’essere in spiaggia. La scuola pronta ad aprire le aule e un cuore gonfio di ricordi. Lacrime rassegnate di svogliatezza. Gli ultimi tocchi dei gelati sulle labbra. La ricerca di quel sorriso al lido semivuoto e il conto alla rovescia. Settembre era quasi sempre uguale nei contorni e negli accenti, ma quella volta si palpava la convinzione di qualcosa di unico, in ogni senso.
Era sugli scogli imbrattati di catrame, sulla strada litoranea dal porto fino all’ultimo stabilimento balneare, nei panzerotti fritti mangiati vicino alla riva, negli ultimi sguardi strappati all’Adriatico e alla stagione del sole. Il rito giornaliero si trasformava, da pendolari diventavamo visitatori occasionali. Un epilogo inevitabile ci obbligava a dosare gli spostamenti fino a interessare le sole ultime festività. Gli attimi vissuti in quel luogo vacanziero servivano a cogliere gli sbuffi del mare che aggredivano anche l’asfalto e le carezze di un vento che ci obbligava alle maniche lunghe.
Un giorno qualsiasi di settembre, fra le onde abbozzate del porto si intravedeva la minuta barca in legno di un pescatore. Una barca come quelle che al tramonto si accendevano vicino alla costa e la sera erano fioche luci che tingevano il buio, fari di oggetti non identificati che camminavano in uno spazio invisibile, testimoni silenziosi di un antico mestiere, mezzi verniciati di cercatori di pesce in un mare ancora popoloso.
Quando non navigavano, le imbarcazioni erano parcheggiate nel porticciolo e creavano la necessaria scenografia; ferme nella stampa delle cartoline, erano in bianco e nero ai tabaccai della provincia; frenate e chine su un lato, coloravano la spianata cementizia vicina alle bancarelle del mercato, dove le voci dei pescivendoli squarciavano l’aria di mattine tranquille.
Pochi moli, poche barche. Nessuno yacht, nessun albero alto. Nell’acqua un battello dondolante era in parte coperto da uno striscione bianco. Su quell’umile scafo, mentre un brivido risvegliava un sogno vero, si leggeva il saluto al mare, all’estate e al ricordo più bello. Grazie azzurri.
(Racconto tratto da “Ardite nostalgie” di Alessandro Robles – Secop 2016)