Il quadrante nord-ovest – sud-ovest del paesaggio agricolo bitontino, delimitabile dalla via comunale chiamata “Pietragrossa” e da via “Cela”, segnato, in modo baricentrico, dal passaggio di quell’importante arteria che è la via Appia, si contraddistingue, oltre la poligonale, per la dislocazione e la concentrazione di un particolare tipo di struttura rurale, denominata lamione.
Il termine deriva dal tipo di sistema strutturale utilizzato per la costruzione, ossia una volta a botte ribassata, nota anche come lamia, realizzata in pietra calcarea e sormontata da un tetto a due falde, il cui manto di copertura è fatto da sottili lastre dello stesso materiale.
In genere, si è soliti ritrovare i lamioni inglobati in altri tipi di insediamenti o dimore rurali, come spazi di pertinenza di casini, torri, masserie o jazzi, poiché di questi ne costituiscono le aree necessarie, di supporto, allo svolgimento dell’attività agricola.
Tuttavia, vi sono esempi, come quelli rintracciabili nel nostro territorio, di lamioni, che pur assolvendo alle stesse funzioni, appaiono visibili come architetture solitarie, sospese nel tempo, immerse, poeticamente, tra gli ulivi.
In pianta, il lamione, si compone di un unico grande vano di forma rettangolare, piuttosto allungato e raramente suddiviso, avente, spesso, come pavimento la roccia affiorante; in alzato, invece, si presenta sempre con un fronte a capanna, l’accesso quasi sempre su un lato corto, con l’aggiunta, in alcuni casi, di un’altra apertura sul lato lungo, oppure addirittura privo di bucature sui tre lati o ancora con piccole finestre sui lati corti quando l’accesso eccezionalmente è sul lato lungo.
Architetture minori, non certo per dimensioni, ma per funzione. Primordiali opifici, veri testimoni della civiltà contadina, emblematici contenitori, che custodivano, in passato, i tanti oggetti che si tende, di recente, a raccogliere e a musealizzare per mantenere viva la memoria di quella cultura contadina.
Architetture dismesse, dimenticate, sconfinate nell’oblio di un decadente contesto agricolo, ma pur sempre dignitose fabbriche, dove è possibile ammirare, forse più che nel contesto urbano, sorprendenti spazi, a perfetta centina, frutto di una sapiente tecnica costruttiva.
Queste lunghe fabbriche terranee, costruite lontano dal centro abitato, destinate, un tempo, a depositi di attrezzi agricoli o a ricovero per gli animali, risultano oggi poco conosciute, fors’anche per via della mancanza di toponimi e di indicazioni sulle mappe topografiche. Dimenticate da studi, ricerche, itinerari turistici e culturali, solo due di queste, rispetto all’insieme presente, sono state indicate, di recente, con opportuna segnaletica. Meriterebbero, invece, di certo, una rivalutazione e un riconoscimento, perché non solo connotano la vocazione agricola dell’area su cui insistono, ma soprattutto rappresentano un’importante testimonianza di quella perduta identità contadina.
Una personale ricerca condotta sul territorio, grazie anche all’ausilio di dispositivi satellitari di cui oggi disponiamo, ha reso possibile la riscoperta di questo insieme di strutture. Rintracciarle non è stato semplice ed immediato, perché il manto di copertura risulta ormai, interamente ricoperto di uno strato erboso che ben si mimetizza con quello del suolo, considerando poi, che in molti casi, la crescita di essenze arboree sul tetto confonde ancor più la struttura con il sistema delle colture.
Dell’insieme dei lamioni individuati solo tre sono riportati con il relativo toponimo nella cartografia dell’Istituto geografico militare: la Lamia Ming-Lucia, sulla strada comunale Monteverde, a poca distanza da Torre Santa Croce, nell’omonima contrada; il Lamione, situato sulla via Appia, in prossimità del Casino de Ilderis, purtroppo non più integro nel suo volume originario; infine, la struttura riportata sull’Igm con il toponimo Casascianna, collocata sull’omonima strada, nella contrada che porta lo stesso nome, altro non è che un lamione, depredato, in parte, del suo ottimo paramento murario e singolare esempio di fusione di questo particolare tipo di struttura con un “pagghiarone” (grande pagliaio).
Per altri lamioni la cartografia non riporta alcun nome, ma si potrebbe avanzare l’ipotesi di assegnare loro lo stesso toponimo delle fabbriche presso cui sono disposti, come ad esempio: il lamione situato in prossimità di Torre del Trave o quello ubicato vicino Torre Gardinello, entrambi sulla Via Appia e ancora, quello posizionato a breve distanza da Torre di Cela. Oppure altra ipotesi potrebbe essere quella di associare loro lo stesso nome della contrada in cui si trovano, come il lamione in Aia di Leo sulla via detta “di Sotto”.
Ci sono, poi, lamioni isolati, la cui posizione rende difficile l’attribuzione di un nome perchè non riconducibile nè ad un altro toponimo nè ad un luogo specifico: è il caso di quello che si trova a poca distanza dalla succitata Lamia Ming-Lucia, che si raggiunge sempre con la stessa strada, la cui conformazione volumetrica è il risultato dell’accostamento di due parti, una coperta a tetto e l’altra piana; oppure di quello posto nelle vicinanze del Palmento Pezza Miola sulla strada per Molfetta.
Lo stato di abbandono e il pessimo stato di conservazione in cui versano queste strutture lascia poco sperare in un loro recupero. Sarebbe eccessivo persino sottoporli ad un regime di tutela e salvaguardia. Di certo sarebbe opportuno almeno identificare l’area geografica in cui sono concentrati come “Parco dei Lamioni“, senza necessariamente definire per quest’ambito un vincolo effettivo.