La narrazione di un Sud che resiste tra le angherie quotidiane delle miserie contadine e di un sudore legato alla terra. È il sudore dei cafoni, quella categoria sociale e antropologica che una certa retorica vuol far crederci come quasi reietta (si rifletta persino sul termine, spesso usato a marchio negativo e denigratorio).
Gli ultimi degli ultimi. I dimenticati. I soli. Non che non sia vero. Ma i cafoni della terra, altro che ultimi, erano i primi, primissimi protagonisti di tutto un mondo antico che non c’è più. Oppure che c’è oggi nell’omologa e forse solo più quantitativamente ristretta categoria dei sottopagati e degli sfruttati dal capolarato.
E se ora l’ambito strettissimo del bracciante è effettivamente un po’ ridotto (grazie all’illusione del coltivatore diretto, insomma), ieri quella del cafone era davvero la specie umana che più componeva le grandi masse che hanno decisamente fatto la storia, almeno alle nostre latitudini. Una storia, dunque, concretamente analitica deve analizzare questi passaggi, ben lungi da caratterizzazioni tardoideologiche o metaforico-caricaturali. No, il
cafone è lì e ci dice quanto ha contato nella storia stessa. Quanto ha sofferto (nella) la sua vita. Il lavoro poetico di Michele Giorgio “L’epopea di un cafone” ha questo senso, va considerato in questa direzione.
A leggerlo, a comprenderlo, aiuta tantissimo il lavoro artistico di Vito Cotugno, docente di Grafica d’arte e Tecniche dell’incisione all’Accademia di belle arti di Bari. Un pittore profondo, Cotugno. Profondo nella sua idea di arte, attenta al cesello, e poi nella concezione e nella creazione delle materie al centro dei suoi lavori. C’è sempre, ossia, uno studio, non solo tecnico: c’è un rimando colto che non si nasconde certo dietro l’abilità della civetteria citazionista. È piuttosto un riferimento alla cultura, alla teologia. In questo caso alla storia.
Ed è proprio in nome della storia dei nostri cafoni, già cantati e illustrati da figure come Carlo Levi, Rocco Scotellaro e Tommaso Fiore, che nasce questo lavoro. Michele Giorgio, storico preside del liceo scientifico bitontino, non nuovo ad opere in versi, scrive un vero e proprio poema in rime dedicato a questa figura, letta nella sua dimensione sociale e mitica. L’opera artistica di Cotugno accompagna e accarezza il poetare.
Il poema ha dei capitoletti in cui la vita del cafone, non di rado messa a confronto con lo stile frenetico dei nostri giorni, è segnata e raccontata attraverso i ritmi quotidiani e stagionali della sua esistenza oppure attraverso gli incontri che egli fa nell’approccio al vivere “civile”.
Ecco allora “Il mattino del cafone”, “Il cafone e l’istruzione”, “Giorni di pioggia” e poi il cafone “e l’educazione”, “in piazza”, ancora il cafone “e la ricchezza”, “e l’asino”, “a giudizio”. Lo stile abbraccia l’apologo, il motto esemplificativo e morale e così il cafone, ben lungi dalla sua dimensione sociale di sconfitta o frustrazione, appare qui come un eroe georgico, secondo la cifra e la tradizione, per diretta ammissione del suo autore, “epica cavalleresca popolare”.
Insomma. L’Italia unita si fa anche con il ministro Luigi Farini che guarda con disprezzo al Sud dei “caffoni”, di cui scrive inorridito a Cavour. Michele Giorgio ricostruisce e soprattutto restituisce dignità, attraverso la figura del cafone, a tutto un territorio, quello del Mezzogiorno, non poche volte, proprio in quei passaggi storici, depredato e reso ancor più depresso di quanto già non fosse. Perché questo accadde.
Lo ammise Luigi Einaudi, lo scrisse in letteratura lo stesso Carlo Levi (ma si pensi anche ad Ignazio Silone). Ce lo ricorda oggi Giorgio in un’operazione che non è e non può essere di nostalgia ma che guarda alla storia in senso crociano, ossia per capire anche le ragioni del presente. Il tutto, infine, anche attraverso la riproposizione di modelli letterari classici, oggi abbandonati quasi del tutto dalla poetica contemporanea. Una provocazione che, al di là del precipuo esito letterario raggiunto, resta di forte interesse e manifesta coraggio.