Tutte le “tonalità” dell’amore

Dalla black music all'elettronica, Enjoy the Void, tributo alle passioni, è l'album d'esordio dell'omonimo progetto alternative rock

Enjoy the Void è l’album d’esordio dell’omonimo progetto musicale, nato a Sapri nel 2015. L’origine del disco risale, tuttavia, almeno a un anno prima, col lavoro di Sergio Bertolino che è autore delle musiche e dei testi.

Non meno importante per comprendere questa genesi è il fortissimo legame creatosi tra i componenti della band. Gli Enjoy the Void possono essere collocati nel solco dell’alternative rock, ma sarebbe riduttivo farlo poiché evidente è la loro volontà di commistionare generi diversi, dalla black music all’elettronica. Enjoy the Void è accompagnato dal singolo Our Garden, che descrive quella fase dell’amore nella quale lo si idealizza al punto da mettere da parte tutto il resto.

Gli Enjoy the Void sono: Sergio Bertolino (voce, tastiere, elettronica), Tony Guerrieri (basso), Francesco Magaldi (batteria), Lucio Filizola (chitarra), Giuseppe Bruno (chitarra, cori), Giovanni Caruso (chitarra, cori), Brunella Giannì (cori). L’artwork è prodotto da GioStone.

Sull’album e sul progetto Primopiano ha intervistato Sergio Bertolino.

Come nascono gli Enjoy the Void?

In un certo senso il progetto è nato due volte. La prima nascita riguarda la musica che facciamo, e risale al 2013. Sono ormai vent’anni che scrivo canzoni. Le band in cui ho militato hanno sempre suonato roba scritta da me, ma lo stile che prediligevo era derivato dalla tradizione degli anni ’70, in particolare dal progressive rock. Nel 2013, invece, ho sentito l’esigenza di cambiare pelle, cominciando a lavorare su strutture più essenziali, più aderenti alla classica forma canzone, mentre la ricerca vera e propria – la mia vena sperimentale – l’ho orientata verso il sound, l’ars combinatoria, l’impasto di vari elementi. L’ascolto di certa musica elettronica d’autore m’ha sicuramente influenzato. Sono passato da una complessità strutturale a una complessità formale. Ho subìto il fascino delle sonorità moderne; mi ci sono immerso a capofitto. Il primo pezzo scritto seguendo questo criterio è stato Doubt, che rientra nell’album degli Enjoy the Void. Da lì in avanti ho sviluppato il discorso fino a comporre l’intero disco.
La seconda nascita riguarda la band. L’idea di formarla ha preso piede durante le registrazioni – all’inizio, per capirci, i musicisti avrebbero dovuto solo eseguire gli arrangiamenti definiti – e oggi non è trascorso neppure un anno da quando ci siam trovati in sala prove per ragionare e comportarci per la prima volta “da band”. Ma allora qualcosa di bello era già avvenuto: un’amicizia, un feeling – sia musicale che umano – cresciuto nel corso del nostro lavoro in studio, un entusiasmo sbocciato dalla consapevolezza della novità di quella proposta.

Cosa rappresenta l’artwork del disco?

È ispirato alla pianta del labirinto di Villa Pisani a Stra, vicino Venezia. M’interessava creare un riferimento al mito di Icaro – che reputo significativo in rapporto al disco – e al concetto stesso di labirinto, secondo una doppia chiave di lettura, musicale ed esistenziale: vari possibili percorsi d’ascolto dell’album, molteplici orientamenti stilistici e la cognizione d’una realtà che, al di là d’ogni semplificante apparenza, ha a che vedere più con il caos che con l’ordine.

Come prosegue la ricerca dello stile musicale degli Enjoy the Void?

Siamo ossessionati dalla ricerca sonora. Non c’accontentiamo di trovare una cifra espressiva efficace e di portarla avanti fino alla saturazione, a rischio di cadere nel cliché. No, sarebbe una noia mortale. Basta ascoltare l’album d’esordio per rendersi conto di un’ecletticità che può dirsi programmatica. Già differenziamo il sound di canzone in canzone, figuriamoci di album in album. Odiamo ripeterci. Col prossimo lavoro discografico abbiamo intenzione di mutare approccio, presentando probabilmente un rock di stampo meno chitarristico. Ma non è detto, c’affidiamo all’intuizione. Credo che confermeremo alcuni capisaldi: la particolare attenzione ai testi e alla melodia, l’eterogeneità e la concettualità degli arrangiamenti, il gioco d’incastri, l’essenzialità strutturale. Anche questi, però, non vanno ritenuti dogmi. Ci riserviamo sorprese.

Di quali temi avete trattato nei brani di Enjoy the Void?

Beh, è un po’ come se parlassimo d’un libro di poesia. Non è un concept, non c’è una trama. Il solo argomento affrontato a più riprese nel disco è l’amore, ma ogni volta in modo diverso e da un particolare punto di vista, tentando di coglierne i momenti, le tonalità, i contrasti, gli effetti sulla coscienza. L’amore ideale, felice, lacerante, carnale, tossico… Non si tratta, comunque, di un album sull’amore: trattiamo temi quali il dubbio, il sogno, la fuga dall’ovvio e dal consueto, l’attesa, la tensione verso il futuro, l’ossessione, la noia, il disagio mentale. Sempre facendo un parallelismo coi libri di poesia, l’importante non è di cosa si parla, ma come se ne parla. Insomma, il linguaggio, la modalità espressiva più del contenuto. Un linguaggio che è sia forma che contenuto: è il fulcro della comunicazione poetica – per natura distante da quella informativa o narrativa, nella sua accezione più comune – ed è senz’altro la tipologia di comunicazione che preferiamo in musica. Nel linguaggio, verbale e non, nella forma utilizzata da un artista si cela un’intera filosofia, una visione del mondo. Non riconosciamo il Caravaggio dai soggetti che rappresenta. Anche in letteratura lo stile m’ha sempre attratto più delle storie, che dimentico abbastanza facilmente, mentre il primo no, mi resta impresso, indelebile.

Nel presentare il disco avete fatto riferimento al Gorgia di Platone, al fatto che l’essenza del desiderio è nella mancanza

Sì, l’abbiamo fatto per spiegare una parte del significato che sta dietro al nome Enjoy the Void. Come dire, dalla mancanza al desiderio, dal desiderio alla ricerca, dalla ricerca alla conquista o alla disfatta… Così va il mondo, così è la vita. Certo, se poniamo la cosa in questi termini, può dare l’idea d’una linea retta, di un percorso da A – mancanza – a B – conquista – dal vuoto al pieno, ma in realtà è un anello, un circuito in cui si generano sempre nuove mancanze, alle quali diamo identità precise e sulle quali a volte abbiamo la meglio. Eppure, non sono altro che specifiche manifestazioni della mancanza sostanziale, che a mio modo di vedere è il motore stesso dell’esistenza. Ed è una mancanza incolmabile, il nulla metafisico. Perciò quello che sembra un percorso anche troppo schematico e relativamente sensato, è in effetti fluido e assurdo. Allora penso: goditi il vuoto, guarda positivamente alla precarietà. Non la stai sperimentando solo nella vita pratica, la stai vivendo su tutti i livelli. Nel vuoto è contenuto l’intero potenziale di ciò che sei. È l’essere in potenza che anela all’essere in atto. È l’istante prima della genesi, la dimensione creativa per eccellenza. Non t’illudere: niente è davvero pieno, niente è “finito”, ogni cosa si sta ricreando. Per fortuna.