Chiunque abbia la possibilità di conversare con il prof. Antonio Moschetta, a proposito del suo lavoro di ricercatore scientifico, sarà quasi certamente spinto, da alcuni principi che stanno alla base del suo pensiero e delle sue scelte, a farsene un’idea tanto suggestiva quanto, in fondo, rivelatrice: che sia, cioè, una sorta di pioniere.
Uno di quegli uomini, insomma, che trova la sua principale ragion d’essere nell’esplorazione di mondi nuovi che aprano sbocchi sconosciuti al genio umano. La ricerca è, per lui, sinonimo di scoperta, un continuo tentativo di sondare, per poi spiegarli, quei meccanismi biologici che ancora si sottraggono alla luce della scienza e che determinano, molto spesso, con ineluttabile meccanicismo la qualità delle nostre vite.
“È negli Stati Uniti (proprio dove la figura del pioniere ha assunto un carattere quasi mitologico, ndr) che ho compreso definitivamente l’importanza di camminare sulle proprie gambe, della necessità stessa della discovery, della scoperta che apre strade nuove, ancora da tracciare”, ci spiega Moschetta nel corso di una lunga intervista, all’indomani della pubblicazione su “Nature” del suo ultimo, importantissimo, studio finanziato dall’Airc, l’Associazione Italiana per la ricerca sul cancro.
Del resto, è proprio questo tipo di orientamento all’innovazione che permette alla scienza di progredire nel suo scopo ultimo. Che è quello di apportare benefici tangibili all’umanità, dalla cura delle malattie al miglioramento delle condizioni di vita. Ma, ça va sans dire, prima di avventurarsi su strade che nessuno ha ancora intrapreso, occorre prepararsi a dovere. Come il professore e ricercatore bitontino, classe 1973, sa perfettamente.
Quando all’inizio degli anni Duemila si ritrova infatti negli States, catapultato all’improvviso allo Howard Hughes Medical Institute di Dallas in qualità di ricercatore per il suo post-doc alla University of Texas Southwestern Medical Center, il suo bagaglio culturale e professionale è ormai già ricco di esperienze e traguardi fondamentali: gli erasmus in Olanda e Spagna, la laurea e la specializzazione a pieni voti in medicina interna a Bari, il PhD ad Utrech (dove approfondisce lo studio del metabolismo dei lipidi in relazione alle patologie del fegato).
Il confronto internazionale gli permette di crescere, umanamente e professionalmente, in ambienti stimolanti e di ampliare sguardo e competenze anche grazie a metodi di insegnamento alternativi a quello verticale, materia per materia, tipico delle università italiane.
Basti pensare, ad esempio, alla tecnica pedagogica del “problem-based learning”, in cui l’apprendimento dello studente è basato sulla risoluzione di problemi sotto la supervisione di specifici tutor, piuttosto che sull’assimilazione di nozioni fornite attraverso le classiche lezioni frontali, grazie alla quale Moschetta ha la possibilità, sin dalle sue prime esperienze nelle università estere, di affrontare problemi clinici utilizzando la creatività e sviluppando abilità nel problem solving, nel ragionamento analitico, nella comunicazione con colleghi e tutor.
Nei tre anni (dal 2002 al 2005) trascorsi in Texas ha la possibilità di conoscere alcune tra le migliori menti del pianeta; scienziati del calibro di Michael Brown e Joseph Goldstein, premi Nobel nel 1985 per aver descritto i meccanismi di regolazione del metabolismo del colesterolo. Qui, sotto la direzione del Nobel Afred Gilman lo scienziato bitontino continua ad approfondire le interazioni molecolari tra acidi biliari, fosfolipidi e colesterolo, che aveva già affrontato nella sua tesi di dottorato, e colleziona un numero impressionante di riconoscimenti e premi.
Il rapporto quotidiano con ricercatori altamente selezionati, provenienti da ogni angolo del globo, gli fa capire ben presto che la valutazione di un candidato ideale per i progetti di ricerca deve basarsi sulla capacità di pensare e di osare. Impara, quindi, il grande peso che la creatività – intesa come capacità produttiva della ragione di creare connessioni nuove tra elementi esistenti – e la libertà intellettuale rivestono nella vita di un ricercatore che sogna di svolgere al meglio il proprio ruolo.
Con questo mirabile background Antonio decide di tornare in Italia, non prima di aver sondato il terreno in cerca di finanziamenti che gli garantiscano l’indipendenza economica, necessaria a proseguire i suoi studi in piena autonomia e libertà. “Soltanto in questo modo si può pensare di fare ricerca ad alti livelli su scala mondiale, soprattutto nel nostro Paese dove si fa fatica a valorizzare le nuove idee e spesso chi finge di voler fare grandi rivoluzioni non fa altro che vivere per lo status quo; mentre gli studenti emulano spesso i grandi professori invece di puntare sul lato creativo, che è ciò che alla fine ti fa vincere nella vita e nel lavoro”.
Una riflessione che nasce da una profonda conoscenza delle differenze che intercorrono tra il mondo accademico e gli ambienti di ricerca del Belpaese e la realtà toccata con mano all’estero. Ma Antonio non rinuncia a un ottimismo di fondo, che trova le sue radici nell’amore viscerale per la propria terra e nella fiducia incrollabile verso le potenzialità di un popolo che (lo dice con il fuoco negli occhi) “ha ancora tanto da offrire al mondo”. Nonostante sappia benissimo che l’Italia è oggettivamente uno dei Paesi che spinge meno sulla ricerca (soltanto l’1,25 per cento del PIL, la metà di nazioni come la Germania e molto meno di quel 3% che l’Europa si pone come obiettivo per il 2020).
Dal suo rientro in Italia Antonio lavora instancabilmente tra la sede di Santa Maria Imbaro (Chieti) dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” e la clinica medica dell’Università di Bari, conducendo studi su terapie geniche, bloccando crescite tumorali tramite interventi sul metabolismo e pubblicando papers molto rilevanti, tra cui quello che ha permesso a lui e al suo team di vincere il prestigioso David Williams Award per la scoperta del ruolo centrale dell’intestino nella sintesi delle lipoproteine HDL.
Parallelamente si dedica anche all’attività di docente universitario, giungendo a rivestire la carica di presidente del corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia dopo aver chiuso un breve capitolo come direttore scientifico dell’Oncologico, ruolo che gli impediva di dedicarsi a tempo pieno alla ricerca, ai pazienti e agli studenti.
Una ricerca frenetica e altamente produttiva, la sua, che ha dato vita ad una mole impressionante di pubblicazioni che guardano sempre più all’idea che, entrando nelle nostre cellule e agendo sul DNA, i nutrienti e gli ormoni possano “accendere” o “spegnere” i geni, con il risultato di prevenire o persino curare determinate patologie, come i tumori. Lo studio delle correlazioni tra le modificazioni del patrimonio genetico e gli alimenti, messo in campo con sempre maggiore attenzione in seguito al sequenziamento del genoma umano nel 2003 e con il progressivo affermarsi della nutrigenomica, ha infatti aperto la strada allo sviluppo di un approccio energetico-metabolico che permette di capire cosa fornisce esattamente energia alle masse tumorali, favorendone la proliferazione, e come bisogna agire per “affamarle”, con la speranza di evitarne la formazione o di fermarne l’accrescimento.
“La fine del sequenziamento del DNA umano – ci spiega il prof. Moschetta – ha chiarito definitivamente l’importanza di una corretta scrittura delle informazioni genetiche che arrivano dai genitori, ma, al netto di questa prima condizione, diventa poi fondamentale anche l’interazione con l’ambiente; laddove per ambiente intendiamo nutrienti, energia, metabolismo”. Siamo dinanzi ad un futuro in cui sarà cruciale investigare il nostro rapporto con il modo di alimentarci. E Moschetta ne spiega le implicazioni pratiche.
“Oggi ci stiamo rendendo conto che è necessario individualizzare i percorsi nutrizionali per favorire benessere. Un piatto di spaghetti, per fare un esempio, ha effetti completamente diversi da una persona all’altra”, chiarisce. Ma non è tutto: questi effetti non variano soltanto a seconda dell’organismo ingerente ma persino a seconda del momento dell’assunzione. “Il DNA, infatti, non è statico ma si conforma in relazione allo stato ormonale, all’infiammazione o al ritmo sonno veglia”. Per evitare mutazioni indesiderate ed scongiurare rischi di patologie, quindi, diventa decisiva anche l’ora della giornata in cui decidiamo di assumere i cibi.
Tutto ciò è strettamente legato all’ultima, importantissima scoperta del professore, che deriva da una serie di altre ricerche nell’ambito della entero-endocrinologia che gli erano già valse il prestigioso riconoscimento del Richard E. Weitzman Award. Tutto prende avvio da un suo vecchio “pallino”: dall’idea, cioè che fegato e intestino siano un organo solo. “Quando mangiamo, il fegato secerne la bile che deve sciogliere grassi, colesterolo e vitamine liposolubili, movimentarli e presentarli alla mucosa per l’assorbimento – illustra Moschetta -.
Abbiamo ipotizzato che alla fine della digestione l’intestino invii un segnale al fegato per bloccare la secrezione di bile. Per capirlo abbiamo lavorato su bambini con mutazioni genetiche estremamente rare che non permettono loro di secernere acidi biliari. Ci siamo chiesti: qual è il messaggio che viene a mancare in questi casi, inducendo uno stato di stress tossico nel fegato, che così sviluppa fibrosi e epatocarcinomi?”. Attraverso una serie di esperimenti piuttosto complicati il team del ricercatore bitontino ha individuato un ormone secreto dall’intestino in relazione all’assunzione di nutrienti che contiene proprio quel messaggio: il Fibroblast Growth Factore 19, (fgf19).
La somministrazione di quest’ormone apre ovviamente a svariate, potenziali applicazioni, anche cliniche, che oltre a poter condurre a una cura per malattie gravi come i tumori del fegato riguardano anche il trattamento di malattie più frequenti, come i calcoli della colecisti e le pancreatiti.
Ma a che punto è la ricerca nel nostro Paese? Secondo Moschetta siamo ai primissimi posti per quanto concerne gli studi sul cancro e che, nonostante le mille e più diagnosi di tumore al giorno, si riesce a guarire sempre più da questo male. Quello che si dovrebbe fare è, secondo il professore, disperdere meno i fondi e concentrare le menti in pochi centri d’eccellenza, favorendo al contempo la condivisione delle informazioni e lo spirito d’unione tra i ricercatori. Un piano ideale, in cui la Puglia potrebbe svolgere un ruolo di primo piano, istituendo magari un’agenzia regionale di ricerca dove ci sia la possibilità di incanalare risorse e mettere in atto quello che Antonio ama definire il “business delle menti”.
Senza mai smettere, al contempo, di puntare sui giovani, trasferendo loro il valore paradigmatico, anche in termini educativi, della ricerca, vero e proprio modello di vita. “Un sistema virtuoso –secondo l’originale interpretazione di Moschetta – in cui tutto l’impegno e la produttività non sono al servizio del padrone di turno, ma si traducono in un arricchimento squisitamente personale, con ricadute positive sull’intera società”. In quest’ottica, ogni sforzo compiuto arricchisce chi lo compie e confluisce in un serbatoio di “plusvalore”, che nasce dal proprio ingegno e dal proprio sudore e si concretizza in un cumulo di pubblicazioni che il giovane ricercatore utilizza per farsi un nome. In altri termini un inno al potere della creatività e alla sana competizione, quella libera da uno sfruttamento meramente utilitaristico.
La ricerca, allora, ci permette d’investire su noi stessi e si fa guida preziosa per risvegliare intelligenze sopite, insegnando ai giovani a puntare su una valida formazione, a trovare uno scopo o un obiettivo, a tirare fuori il carattere e a saper lavorare in gruppo; a sviluppare, infine, un metodo per giungere a risultati – si spera innovativi e speciali – che andranno poi comunicati e sottoposti al giudizio della comunità scientifica. “La ricerca – è questo il messaggio finale che Antonio vorrebbe trasmettere alle nuove generazioni – insegna tre cose fondamentali nella vita: leadership, team building (la capacità di far squadra) e comunicazione”.
Vere e proprie pietre d’angolo nel percorso formativo, umano e professionale, di ciascun giovane che, prima di poter spiccare il volo, deve necessariamente impostare la propria crescita su fondamenta solide e durature, fortificandosi e imparando a conoscere se stesso. Prestando ascolto – un po’ come avviene al protagonista di un meraviglioso film di Jacques Audiard – ai “battiti del proprio cuore”. Perché è lì – Antonio ne è profondamente convinto – che si nasconde quella forza luminosa che ci permette di scrivere la nostra storia nel grande libro della vita.