Il viaggio è finito. Prendiamo un taxi per l’aeroporto di La Paz, la città più alta del mondo. Una specie di conca a 3.600 metri di altitudine, dove le strade non sono altro che impressionanti salite e ripide discese.
Il tassista guida una macchina vecchia come un sito archeologico Inca: già dai primi metri arranca, emettendo suoni inquietanti. Ci areniamo alla prima salita. La mia tachicardia da altitudine si trasforma in terrore puro all’idea di precipitare.
La mia amica e compagna di viaggio, Mimosa, cerca di tranquillizzarmi; ma quando cominciamo ad andare inesorabilmente all’indietro e all’odore di frizione bruciata si aggiunge una nuvolona di fumo nero dal cofano, ci ritroviamo a saltare giù dal taxi in corsa neanche fossimo Lara Croft.
Una volta giunte sane e salve sull’aereo ci solleviamo su un paesaggio di migliaia di case e alte montagne. Sembra ieri che siamo arrivate in Bolivia. Questa volta, infatti, la mia cartolina non ve la mando da New York ma dal paese dell’America latina.
Dieci giorni prima.
Il nostro punto di partenza è Santa Cruz de la Sierra, città non particolarmente affascinante. Dopo una cena a base di guacamole e alligatore fritto, prendiamo un volo per Sucre.
La città è il simbolico cuore della Bolivia: è qui che, nel 1825, l’Assemblea Costituente aveva proclamato l’indipendenza del paese. Una città dai toni del bianco e dalle architetture coloniali, patrimonio dell’UNESCO dal 1991. È qui che si possono vedere, immortalate in una parete di argilla, circa 5000 tracce di almeno otto specie diverse di dinosauri.
A poco meno di 300 chilometri c’è il villaggio di La Huigera, dove nel 1967 fu ucciso Che Guevara. Il Comandante appare solo fra orridi souvenir venduti altrove: vedere statuine del Che fra lama di pelouche e portachiavi mette una certa amarezza.
È domenica e siamo in fila per il bus che di buon mattino ci porterà a Tarabuco, un paesino a 60 km dalla città.
La fermata dei pullman è nella storica Plaza 25 de Mayo, davanti alla Catedral, la messa è iniziata e un gruppo di donne all’ingresso vende delle croci e delle piccole ceste, fatte con foglie di palme intrecciate.
L’attrazione domenicale di Tarabuco è il mercato, aree ben definite di venditori di strada, dove le anziane indios vendono aguayo e axu antichi, le stoffe rettangolari che le donne utilizzano come gonne. Non mancano cibarie e animali. Alcuni mercanti praticano il baratto; altri, sprovvisti di tende e tavoli, distendono la merce su teli di lana di alpaca.
L’alpaca: non esiste turista che si sottragga alla tentazione di comprare un cappello o un maglione di lana di alpaca dalle discutibili fantasie inca o con stilizzati, zompettanti alpaca, animali che vengono spesso confusi con i lama, altro genere di camelidi, anch’essi diffusi in tutto il paese, dalle verdi distese erbose alle vette più alte fino alle griglie dei ristoranti locali.
In una zona più nascosta del mercato, le cosidette curandere, look inconfondibile e lunghissime trecce, vendono rimedi e infusi misteriosi per ogni male e dolore, che sia del corpo o dell’anima: pietre e semi colorati, fossili, scheletri e feti, anch’essi dei soliti lama.
Le curandere non sono esattamente propense a condividere il loro sapere con i turisti. Sono, anzi, piuttosto reticenti alle domande. La maggioranza dei boliviani è di origine indigena e gelosa delle proprie tradizioni.
Tentiamo di indossare uno di quei cappelli a bombetta che vediamo in capo alle donne locali. Non vanno calzati per bene, solo appoggiati. Ma questo significa avere un’andatura ferma, fiera e più dritta di un tronco. Forse le donne che li indossano sono bilanciate dai larghi fianchi, frequenti nella corporatura quechua.
Il giorno seguente assumiamo una guida che lavora per una piccola ong. Ci porta a camminare nei dintorni delle basse montagne di Sucre: visitiamo cascate e ci perdiamo sulle alture incontaminate. L’altitudine non consente un passo spedito. L’ipercalorico dulce de leche spalmato sul pane a colazione aiuta per l’energia.
Ma non è stato facile conquistarlo: abbiamo dovuto strapparlo letterlamente di mano ad un’orda di avidi e maleducati turisti cinesi ospiti del nostro hostal.
Negli hostal e in paesi come la Bolivia, non ancora funestati dal turismo di massa che tutto trasforma, è raro incontrare maleducati. Anzi, i bravi viaggiatori si riconoscono e si aiutano come possono.
Sul bus che in otto ore ci ha portate da Sucre ad Uyuni, ad esempio, ci siamo scambiati generi di prima necessità come le tortine di mais, comprate per strada, avvolte nelle loro stesse foglie e grigliate. Mimosa, alla vista del pacchetto sudato nella bustina di plastica, ha commentato: “Questo snack è il giusto equilibrio fra tifo ed epatite B”. Era buonissimo.
Le otto ore di bus sono state estenuanti ma il paesaggio è valso il disagio. L’autista ogni tanto urlava: “¿Alguien tiene que orinar? “. La sosta aveva luogo fra i cactus e vicino ai soliti lama intenti a pascolare.
Uyuni è la cittadina da cui partono i tour per il Salar De Uyuni, luogo unico al mondo. Incastonato tra le Ande all’estremo sud della Bolivia è la più grande distesa di sale della Terra, creata dall’evaporazione del gigantesco lago preistorico Minchin. Contiene un terzo delle riserve mondiali di litio e con il suo prezioso ecosistema dà forma a un paesaggio spettacolare.
Il tour inizia dal “cimitero dei treni”, un luogo venduto dalle guide come un set da film apocalittico, dove i resti di antichi vagoni e locomotive giacciono e si trasformano in ferro arrugginito.
Nel 1886 la prima ferrovia del paese aveva qui lo snodo fondamentale per il trasporto di minerali dalle Ande sino all’Oceano Pacifico.
A proposito di treni e ferrovie, Evo Morales, in carica dal 2006 e primo presidente indio della storia del paese, ha un progetto strategico. “Una ferrovia bi-oceanica che colleghi l’Atlantico con il Pacifico, passando per il centro del continente, che permetterà – spiega – alle merci in partenza da Shangai di arrivare in Europa prima e a costi inferiori rispetto al canale di Panama. I nostri vicini, Brasile, Uruguay, Paraguay, avranno tutti un gran beneficio”. Dal porto di Ilo in Perù a quello di Santos in Brasile, 3755 chilometri, attraversando le Ande e il Mato Grosso. Costo stimato 15 miliardi di dollari.
Il presidente ha ribadito l’importanza del progetto al Summit of the Americas che si è svolto a Lima qualche giorno fa.
Nell’attesa della nuova ferrovia lasciamo il mesto cimitero per raggiungere il Salar, uno spettacolo grandioso, forse l’unico luogo pieno di turisti, intenti a scattare centinaia di foto al paesaggio lunare e accecante di bianco e di celeste.
Per tre giorni abbiamo viaggiato su una jeep su strade impossibili, dormendo in luoghi dove le pareti erano di sale, col bagno in comune e seppellite da mutistrati di coperte di pile per proteggerci dal freddo.
Abbiamo raggiunto La Reserva Nacional De Fauna Andina Eduardo Avoroa, fondata nel 1973 con l’obiettivo di conservare l’ecosistema della regione, la sua ricca biodiversità, i suoi paesaggi surreali e i ben tre tipi di fenicotteri che vivono felici nei laghi salati conosciuti come Lagunas de Colores.
Siamo al confine con il Cile a 4278 metri di altitudine, in una delle regioni più selvagge al mondo.
Nei deserti, ai piedi delle montagne, venti impetuosi modellano affascinanti e contorte formazioni rocciose erose nei secoli, sembra di passeggiare in un quadro di Salvator Dalì.
Il viaggio di ritorno è piuttosto faticoso. Nove ore in macchina su strade sterrate e rocciose. Siamo ricoperte di polvere, provate dall’altitudine ma estasiate da Sua Maestà la Natura.
Il giorno successivo voliamo a La Paz, sede del governo, città caotica, gigantesca. Preferiamo vederla dall’alto e passiamo mezza giornata a fare su e giù dal centro fino alla città di El Alto sulla famosa teleferica voluta dal presidente Morales: un sistema efficientissimo inaugurato nel 2014 per ridurre traffico ed inquinamento.
Evitiamo accuratamente la gita in bici sul percorso chiamato Death Road, per ovvie ragioni toponomastiche, così come evitiamo gli spettacoli di Cholita Wrestling dove donne (cholitas vengono chiamate le donne indigene, una versione edulcorata del termine “chola”, che significa “bella signora” ma ha una connotazione dispregiativa) in costumi tradizionali, se le danno di santa ragione, più o meno per finta come i wrestler americani e i messicani del Lucha Cibre.
Secondo un sondaggio della Pan American Health Organization del 2012 la Bolivia ha il tasso più alto di violenza fisica e sessuale in America Latina. Si dice che le cholitas abbiano inziato a combattere per dimostrare di essere più forti degli uomini.
Forse una tassista donna, lavoro ancora riservato ai soli uomini, avrebbe avuto più cura della sua auto e delle sue passeggere.
Un viaggio splendido ed inaspettato che avrei voluto proseguisse verso il confinante Perù. Sarà per la prossima volta.