Italia, terra bella e terra di misteri e segreti.
Lo si dice da sempre, no? Pensiamo persino a come l’Italia è nata. Polemiche a iosa ancora oggi. Risorgimento sì, Risorgimento no. I briganti come delinquenti comuni, legittimisti borbonici, contadini depredati delle terre o, addirittura, partigiani e difensori della propria identità. Insomma, come sostiene qualcuno, siamo il Paese delle mezze verità. Trasparenze spesso ossimoricamente opache e assai monche anche in relazione a disastri, stragi, tragedie che hanno segnato e ferito la nazione e sulle cui origini e motivazioni quasi mai è stato donato il minimo senso di giustizia e verità al cittadino.
Poco meno di tre decenni dopo la nascita dello stato unitario, nel 1888, nel profondo Sud lucano, accadde qualcosa che destò da subito le coscienze del Paese e mosse gli animi più sensibili ad accertare la verità.
A volte la ricerca storica, soprattutto se valida e capillare attorno alle fonti, può far molto, giungendo in soccorso, rispetto alle verità mancate, ad una giustizia insufficiente e impotente, e infine anche alla stessa storia che, inesorabile, passa, col rischio dell’oblio sempre in agguato.
È per questo che è da salutare sempre con estremo piacere ogni momento che tenti un serio approccio alla verità, con la soddisfazione civica derivante dal desiderio di risalire alla luce su fatti persino antichi.
La premessa, necessariamente lunga, serve a presentare un lavoro di ricerca che analizza e studia a fondo il dramma accaduto il 20 ottobre 1888 su un treno della tratta Napoli-Taranto.
Il volume, dal titolo “Il treno del bel canto. Il disastro di Grassano del 1888”, edito dalla Setac di Pisticci, è opera di Gianni Maragno, noto e apprezzato ricercatore materano. Veniamo alla tragedia: 20 morti e ben 65 feriti.
Una triste pagina di storia, frutto di una ricerca che deve davvero tanto al capillare recupero delle fonti giudiziarie dell’epoca e, dunque, direttamente degli atti del processo.
L’azione comincia il 19 ottobre. Il treno della tragedia, il n. 265, parte in tarda serata da Napoli con destinazione Taranto. Il viaggio prosegue tranquillamente sino alle 5,35 del mattino seguente, quando il convoglio “alla lieve curva dopo il casello 215 e precisamente fra le stazioni di Grassano e Grottole (entrambe in provincia di Matera), investì una frana argillosa che doveva essere caduta di recente”.
Così la stampa dell’epoca. Fu una catastrofe. Per molti anni detenne la non invidiabile palma di tragedia ferroviaria con il più alto numero di vittime in Italia.
“Il disastro di Grassano”, si disse subito. E così da allora la cittadina lucana, vicinissima a Matera e dunque al confine con l’area barese, che poi diverrà famosa per aver ospitato Carlo Levi nel suo primo soggiorno da confinato prima di Aliano, resterà per sempre legata a questo dramma.
La circostanza davvero terribile e disgraziata è che non fu nemmeno l’unico. Nel 1926 un altro grave lutto scosse questa comunità. Maragno ne parla. Con lui, prima, aveva fatto lo stesso proprio Levi, nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”.
Si tratta della tragica fine di molti componenti della banda cittadina, di ritorno da Oliveto Lucano. Il mezzo che li riportava a casa cadde in una scarpata. Il piccolo centro ne è rimasto segnato per sempre.
Ma torniamo alla tragedia del 1888: perché ci stiamo occupando del libro che ne ricostruisce la storia?
Per quali ragioni prestare ancora attenzione alla vicenda, oltre alla sensibilità umana nei confronti delle vittime, che mai può e dovrebbe scemare?
Soprattutto perché questa rubrica è particolarmente attenta a un Sud che riesamini se stesso anche a partire da episodi oggi non più noti al grande pubblico e che però, nella loro identità di storie anche molto amare o silenziate o di nicchia, tanto dicono della nostra terra. Lande che si nutrono, ahinoi!,anche di storie di abbandono, sofferenze della carne e dello spirito; risorse -tante, tantissime- e però anche ritardi e il senso di una ricchezza che qui poco è tutelata e valorizzata, con il risultato di non trattenerla dove nasce, pur essa alimentando continue suggestioni e immagini di poetica e mediterranea ispirazione.
Interessa poi anche una sorta di recupero di alcuni episodi delicati in chiave, per così dire, di reportage storici. L’impatto del treno con il luogo dove la frana era esplosa e la terra implosa fu assolutamente devastante.
Il primo vagone si levò in alto come un cavallo imbizzarrito. All’interno panico e terrore. Il fattaccio ebbe conseguenze struggenti anche “in senso artistico”: nell’incidente, infatti, in una delle carrozze più colpite dall’impatto, viaggiava una compagnia di canto, attesa a Corfù per la nuova stagione lirica. La morte sopraggiunse e in pochi anni quel fiore all’occhiello musicale per tutto il Sud sparì.
Nel 1926, dunque, come detto, l’arte e la musica saranno ancora colpite. In quel treno anche tanti carabinieri, per la visita a Napoli di Guglielmo II di Germania.
Restarono illesi e aiutarono durante i soccorsi.
Doloroso e logorante fu il processo sulla tragedia del 1888. Veloce, in realtà, soprattutto in confronto ai tempi odierni.
Logorante però, perché fu chiaro che il raggiungimento della verità sarebbe costato caro a qualcuno. Tanti i tentativi di allungarne i tempi. Ci furono condanne nel primo dibattimento a Potenza ma poi, dopo la coraggiosa sentenza lucana, a Bologna, dove ci si era intanto spostati per il principio del legittimo sospetto, persino il pm additò Potenza come rea di aver osato colpire e punire la Società Italiana per le Strade Ferrate del Mediterraneo. In Cassazione le condanne in primo grado furono ancora capovolte
L’unico a pagare col carcere per la morte di 20 passeggeri, fu il bitontino Gaetano Morea, guardiano ferroviario in servizio a Grassano
La Società non avrebbe pagato così alcun indennizzo, né avrebbe riconosciuto risarcimenti.
A Potenza era stato condannato a tre anni di reclusione e a mille lire di multa il ventottenne Gaetano Morea, guardiano ferroviario, pugliese della nostra Bitonto, “colpevole di avere per negligenza e inosservanza dei regolamenti cagionato la morte a venti individui”.
Cosa s’imputava esattamente al Morea, spesso descritto con lombrosiano disprezzo durante le fasi processuali, persino con riferimento al suo aspetto fisico e psicologico (“mezzo cretino”, lo definì l’avvocato di parte civile)? Egli non fece tutto ciò che avrebbe potuto velocizzare i soccorsi. Morea diede l’allarme con ritardo, probabilmente perché, a leggere le pagine del dibattimento, “dormiva”.
Come fu possibile che non fosse riuscito a sentire per tempo l’effetto del movimento franoso di 80.000 metri cubi di materiale staccatosi dal monte? Se lo chiese anche il ministro ai Lavori Pubblici Saracco, interrogato dal parlamentare Lacava. Con Morea fu condannato anche Mattia Massa, direttore generale della Società Ferroviaria, responsabile civile dei danni che la giustizia imputò soprattutto al Morea. Davvero certosino il lavoro di Maragno, soprattutto con riferimento all’indagine su altre questioni che sicuramente furono da ostacolo all’accertamento del vero. Tante le domande. C’era un monitoraggio della zona? L’organizzazione della sorveglianza era adeguata? La frana cadde prima o sfortunatamente proprio al passaggio del treno? Considerato che la frana rovinò pochi metri distante da uno dei casotti cantonieri, come fu possibile non percepire l’entità dell’incipiente dramma? Perché quella linea non era così sicura come altre del Paese? Perché il treno non viaggiava in orario, arrivando così con due ore di ritardo nella zona?
Ai più apparve inoltre chiaro come la questione fosse stata presa sotto gamba per le note e solite logiche di emarginazione del Sud. Non mancarono interventi giornalistici e denunce politiche nelle aule istituzionali.
Quindi: domande, domande. Ovviamente senza risposta. Solo mistero e silenzio. Ormai per sempre.
La storia, la storia del Sud, è spesso fatta di dolore. Un dolore che non vede scorci di verità, un dolore che poi si trasforma in disperazione e qualcuno ancora se ne sorprende.