“Internet e i genitori iperprotettivi sono 
i veri ‘problemi’ della scuola”

La testimonianza appassionata dell'ex docente bitontina Mariolina Rutigliano ci aiuta a riflettere sui cambiamenti in atto e a rintracciare le ragioni più autentiche della principale agenzia educativa

Prosegue l’inchiesta del nostro giornale “La scuola tra ieri e oggi”, rivolta a fare il punto su quella che è stata l’esperienza di alcuni autorevoli docenti, oggi non più in attività, e a raccoglierne le indicazioni su quelli che dovrebbero essere i pilastri di un sistema educativo all’altezza dei propri compiti.

L’intento è tracciare un parallelo tra ieri e oggi sul ruolo della principale agenzia educativa, provando a districarsi in un mondo così importante quanto complesso quale è appunto la realtà scolastica, e indicando, se possibile, una strategia per ricondurla alla sua funzione più cospicua: formare i cittadini di domani.

Mariolina Rutigliano, docente bitontina da alcuni anni in pensione, nei suoi lunghi anni di docenza ha svolto con entusiamo e professionalità il proprio ruolo di educatrice e formatrice. Ora si dedica con successo a una prolifica attività di sceneggiatrice e interprete teatrale.

Come ha iniziato la sua carriera di insegnante?

Ho avuto la fortuna di cominciare la mia attività di docente, agli inizi degli anni settanta, in una scuola sperimentale in provincia di Bergamo, proprio quando si stava avviando il discorso di una scuola diversa, aperta al mondo esterno. La mia prima preside bergamasca, che mi ha forgiata come persona e come docente, offrì a un nutrito gruppo di insegnanti neolaureati provenienti dal Sud, tra cui anch’io, la possibilità di farsi le ossa frequentando, come tirocinanti, la scuola “umanitaria” della periferia di Milano. Una scuola alla don Milani. Una volta trasferita al sud, cercai di far tesoro di quanto appreso, anche perché fortunatamente anche da noi la scuola stava cambiando, dal modello cognitivo a quello formativo.

Quali sono i cambiamenti più significativi, sopraggiunti nel corso dei suoi anni di insegnamento?

Direi quelli verificatisi negli ultimi tempi, dal ‘95 al 2000, a causa di genitori troppo protettivi e poco collaborativi, nel processo di formazione dei propri figli, e a causa dell’uso smodato del computer. Stimolavo i ragazzi alla creatività, al pensare con la propria testa e, invece, mi presentavano pappardelle trascritte senza capirne il significato. I giovani hanno recepito il peggio della tecnologia, non sanno farne buon uso; si credono potenti solo perché hanno uno strumento diabolico tra le mani.

Come si è evoluto il suo metodo, in relazione al passare degli anni e ai diversi contesti sociali e culturali?

Ho sempre mirato a formare gli uomini del domani. Lezioni di vita mi furono date dagli alunni di Poggiorsini: ragazzi che si alzavano alle quattro del mattino, andavano prima a pascolare le greggi e poi, stanchi morti, venivano a scuola. Non c’era nulla da insegnare a quei giovani: erano nati uomini. Ho sempre aggiornato la mia didattica, frequentando corsi vari, sempre con l’obiettivo di trasmettere un metodo di vita leale e strumenti logici di apprendimento.

Qual è stato negli anni il ruolo dei genitori?

Negli ultimi tempi i genitori venivano a giustificare le inadempienze dei propri figli. Non si era liberi di dire la verità, guai a dare un meritato e giusto giudizio! Contava solo che sulle schede personali ci fosse scritto “ottimo”, anche se non meritato. Vorrei citare un aneddoto, per meglio chiarire come la pensassi. Mio figlio frequentava il liceo classico. Al secondo anno, l’ottima insegnante Giovina Castro mi chiamò per informarmi che studiava poco o niente il greco. Senza ombra di dubbio, parlando prima come madre e poi come insegnante, la incoraggiai a punire mio figlio. Ricordo ancora le parole di Giovina: “in tanti anni di insegnamento è la prima volta che mi trovo di fronte a una madre che chiede trionfi la verità”. Mio figlio fu rimandato solo a greco.

Ritiene che gli investimenti per la scuola siano il frutto di una seria e ponderata pianificazione?

Si investe troppo in tecnologia, mentre andrebbe aumentato il numero dei docenti per far sì che il rapporto sia di un insegnanete per ogni dieci alunni, al massimo. Mentre oggi si tende, per risparmiare, ad accorpare scuole, con classi di 25-30 alunni, anche in presenza di portatori di handicap.

Quanto è importante l’interdisciplinarietà?

Per me è stata un cavallo di battaglia. Sono stata una pioniera del tempo pieno, del tempo prolungato, delle compresenze, quando da noi si iniziava appena a parlarne. I miei alunni si presentavano agli esami ciascuno con un argomento trattato interdisciplinariamente. Un presidente di commissione, entrato per caso nell’aula d’esame e fermatosi ad ascoltare il colloquio di un alunno, si complimentò con noi docenti e con il candidato per la logica e la perizia con cui veniva trattato l’argomento.

Che rapporto c’è nella scuola con l’attualità? I ragazzi s’interessano al mondo e a ciò che succede intorno a loro?

In realtà, sono bombardati dai mass media; hanno gli strumenti per interessarsi al mondo e a ciò che succede, ma talvolta ne traggono scarsi insegnamenti.

Quali sono i ricordi più belli dei suoi lunghi anni di insegnamento?

Ho ricordi di scuola molto belli e positivi: incontro per strada uomini, già padri, che mi dicono “Ah, se mio figlio avesse un’insegnante come lei!”. Questo mi ripaga di tutto il tempo che ho dedicato con amore e passione alla scuola. Sentire, poi, parlare di ex alunni che si sono affermati in vari campi, mi riempie davvero di gioia. Tanti sono diventati ottimi artigiani, professionisti, imprenditori. Quando poi vado a cinema e leggo il nome di Domenico Procacci, produttore della Fandango, mi riempio di orgoglio come se fosse uno dei miei figli. Domenico è stato mio alunno in seconda elementare all’istituto “Sacro Cuore” di Santo Spirito: io mi ero appena diplomata quando a diciasette anni fui chiamata dalla superiora per insegnare ai bambini di sette anni. Certo, la mia vita di insegnante è stata costellata anche da insuccessi: penso alle morti drammatiche di ex alunni. Mi chiedo, cosa avrei potuto fare di più per loro? Gemellaggi con alunni di un paesino delle Marche, rappresentazioni teatrali, tante altre attività che creavo per coinvolgerli ma, dopo la scuola, c’era la strada pronta a inghiottirli nella spirale della malavita. A loro e alle famiglie, nonché alle mancanze delle istituzioni, va spesso il mio pensiero.

A quali attività si è dedicata dopo il pensionamento?

Dopo il pensionamento, nel 2000, non me ne sono stata con le mani in mano. Ho fondato, insieme ad alcune mie amiche, un circolo culturale, il “Symposium”. Sempre nel 2000, insieme a Franco Moretti e a Michele Labianca, purtroppo scomparso, ho fondato il gruppo teatrale “U trajòine”, che porta in scena i miei testi in vernacolo, frutto dell’osservazione della realtà paesana e della mia memoria storica familiare. Abbiamo denominato questo gruppo “U trajòine” col preciso intento di trainare i giovani verso la conoscenza del dialetto, delle tradizioni, dei motti popolari. Secondo me, chi non conosce il dialetto della propria terra, non può conoscerne a fondo la storia. Un’espressione dialettale, detta spontaneamente in un momento di gioia o di dolore, non è traducibile in italiano con lo stesso fervore espressivo. Tullio De Mauro nel 2000 ha scritto: “i dialetti sono vivi e vegeti, per fortuna duri a morire”. Ho scritto diciassette commedie, una all’anno, che, ad onor del vero, hanno ottenuto sempre notevole successo, grazie all’interpretazione di persone indimenticabili: penso, soprattutto, al compianto Michele Labianca, dotato di presenza scenica straordinaria, e a Titina Rossiello, che si è poi ritirata dalle scene. Indegnamente ho preso il suo posto. Ma Titina era Titina.