Fin dove è ancora possibile crescere? E a spese di chi?
A quali costi ambientali? Compete all’economia dire la sua su un problema così delicato? Sono questi alcuni interrogativi che ormai da qualche decennio i teorici della cosiddetta “decrescita felice” – scuola che s’ispira al pensiero del filosofo e sociologo Serge Latouche – sollevano circa la percezione che l’attuale sistema economico si stia avvicinando (se non abbia già toccato) ai limiti oltre cui l’intero edificio del capitalismo rischia di crollare.
Le cause principali sono l’elevata frequenza di eventi estremi (si pensi ai fenomeni atmosferici) e, soprattutto, la combinazione di shock di natura economica, sociale e ambientale che richiederà, necessariamente, un cambiamento radicale.
Va da sé che un tale “effetto domino” quando diviene inarrestabile prelude al collasso dell’intero sistema. E come negare, in effetti, che l’attuale generazione sia la prima che sta sperimentando sulla propria pelle, a latitudini varie, le conseguenze della globalizzazione post 1989?
Ai giorni nostri, quasi ottocento milioni di persone in tutto il mondo vivono in povertà estrema e un numero simile è sottonutrito. Sessanta milioni vivono in una condizione di schiavitù. Duecento milioni sono i disoccupati; settecento non hanno accesso all’acqua pubblica e, dato più inquietante, l’1% della popolazione possiede il 50% della ricchezza mondiale.
Stando ai dati Ocse relativi al 2016, inoltre, le otto persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale (Rapporto Oxfam An economy for the 1%: It’s time to build a human economy that benefits everyone, not just the privileged few, disponibile all’indirizzo http://www.oxfamamerica.org/static/media/bp-economy-for-99-percent-160117-en.pdf).
Che fare in uno scenario così preoccupante e difficile da sconfessare? Fermiamoci un attimo, lasciandoci guidare dall’acuta e minuziosa analisi che Enrico Giovannini, già ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali nel governo Letta, presidente dell’Istat, direttore delle Statistiche dell’OCSE e, attualmente, docente di Statistica economica all’università di Roma Tor Vergata e Public menagement alla Luiss, propone nel suo ultimo volume “L’utopia sostenibile”.
Edito da Laterza, il saggio contiene una serie di ricette su agricoltura sostenibile, salute e benessere per tutti, crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, occupazione, soprattutto giovanile, piena e produttiva, un lavoro dignitoso per tutti, innovazione e industrializzazione equa, lotta ai cambiamenti climatici, resilienza.
Tutte proposte concrete che cercano di ravvivare la possibilità di orizzonti alternativi, garantendo quella giustizia “intergenerazionale” che lega, appunto, le persone di epoche diverse tra loro.
Dopo una breve introduzione in cui si argomenta come tradurre in realtà “l’utopia sostenibile” attraverso un cambiamento che, partendo soprattutto dai giovani, passando per i politici, approdi alle imprese, Giovannini fotografa la geografia di quello che lui stesso definisce un “mondo a rischio”. Sempre più assediato da fenomeni fortemente destabilizzanti (si pensi al cambiamento climatico, alle migrazioni e all’aumento delle disuguaglianze): benvenuti nell’Antropocene! (vedi anche P.J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori, Milano, 2005).
L’ex ministro ci ricorda, infatti, che “almeno fino alla prima rivoluzione industriale, la Terra ha vissuto un’era geologica detta Olocene, nella quale sfruttando senza limiti la natura, l’umanità ha sviluppato le sue civiltà, con alti e bassi, ma sostanzialmente come ospite di un Pianeta generoso di risorse per la nostra crescita”.
“Nell’Antropocene, cioè nell’era che attuale – spiega, tuttavia, il professore – la prospettiva si è rovesciata: è l’uomo, con i suoi comportamenti, a determinare lo stato e l’evoluzione dell’intero pianeta, costretto ad assumersi la responsabilità globale di “gestire il mondo”.
Attraverso una lunga carrellata, nella quale Giovannini ripercorre la storia dello sviluppo sostenibile, l’asse del discorso si sposta sull’importante Rapporto al Club di Roma The Limits to Growth, realizzato da alcuni esperti del Massachussets Institute of Technology (Mit). Questi ultimi, basandosi sulla teoria dei sistemi e dei modelli disponibili all’epoca indicavano che, intorno alla metà del XXI secolo, si sarebbe determinato un improvviso collasso del sistema. All’epoca, tuttavia, furono giudicati eccessivamente pessimisti.
Sebbene (anzi, forse proprio perché) il nostro Paese non sia su un sentiero di sviluppo sostenibile, alla luce di valutazioni effettuate da alcuni centri internazionali di ricerca e dall’analisi degli indicatori disponibili per il caso italiano (gli stessi italiani, almeno sul piano emotivo, sembrano abbastanza consci del problema), occorre realizzare con urgenza alcuni interventi in direzione di un cambio di paradigma economico a centoottanta gradi.
In altri termini, tre sono, ad avviso di Giovannini, gli elementi cruciali per consentire la trasformazione di un sistema verso lo sviluppo sostenibile: innovazione e tecnologie adeguate, una governance globale in grado di gestire efficacemente la complessità del sistema, un cambiamento profondo della mentalità e della cultura delle persone.
Il professore si spinge ad affermare che sarebbe, pertanto, auspicabile l’inserimento nella Costituzione, tra i principi fondanti della Repubblica, del concetto di sviluppo sostenibile come paradigma di riferimento sia per le politiche pubbliche che per i comportamenti delle imprese e delle persone.
La Norvegia, la Francia, la Svizzera e altri paesi hanno già imboccato questa strada. Quando l’Italia? Per quanto ancora lasceremo passare per buona l’affermazione di Groucho Marx, grande comico della prima metà del secolo scorso: “Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Cosa hanno fatto loro per me?”.