Un nuovo girone dantesco per i ladri di chianghe

Da elemento principe del nostro arredo urbano a illecito ornamento di case private

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Sin da bambino ho familiarizzato con la parola “chianga”. Lo sanno tutti, è un pietrone, della dura roccia pugliese ed è sempre stato fondamentale nella nostra architettura e nel nostro arredo urbano.

A grossi pezzi, i chiangoni, ha lastricato le nostre strade, imperterrito e durissimo: ha sopportato cammini, viaggi, migrazioni, processioni.

Sminuzzata, la “chianga” ha partecipato pura, perfetta, orgogliosa della mansione, a centinaia di miglia di muri a secco, quelli che scandivano le nostre campagne con rigore e geometrica pulizia. Nel liguaggio traslato “restare alla chianga” voleva dire non trovare marito e sanciva il destino delle “signorine grandi”. Non mi sono mai spiegato la ragione della metafora calcarea.

Adesso la “chianga” è ambitissima, va letteralmente a ruba. Piuttosto che prelevarla sobriamente dalle cave, forse in via di esaurimento, qualcuno preferisce rubarla. Ero stato avvertito da un’amica, ma mi era sembrato un allarme amplificato dall’esasperata paura che aleggia sulle nostre teste e tormenta il vivere nostro quotidiano: i ladri scorrazzano nei cimiteri. Anzi, la pena di quella signora che mi raccontava, irrobustì di due avverbi la sacrosanta delazione.

Mi disse che “adesso” i ladri rubano “anche” nei cimiteri. Due avverbi che valgono un saggio di sociologia: quell’adesso, che racconta la sconsolata constatazione dei tempi feroci in cui tiriamo a campare, e quell’anche, che rileva il limite superato, il limite della tollerabilità, il limite dell’umanità. L’inferno è affollato, è vero, di ladri d’ogni risma e Dante pellegrino ne incontra nell’immondo rettilario di Malebolge, e come! Vanni Fucci bestia sta lì per l’eternità a insolentire il Padreterno con le sue “fiche” squadrate nella bestemmia perché rubò ferocemente e rubò in chiesa (“in giù son messo tanto perch’io fui ladro a la sacrestia d’i belli arredi”) e, da allora, è inchiodato nella peggiore tra le pene per i reati di ruberia.

La sua viscida comparsa nell’abisso desertico della sua bolgia sanziona la sua pessima vita e, al tempo stesso, sembra alludere a un’irripetibilità del crimine, eccessivo anche per le cupezze medievali. Ma “La Divina Commedia”, già poco frequentata nelle scuole, certamente non è il libro prescelto per il comodino della malavita la quale, per parte sua, non fa più differenza tra Mercedes e altarmaggiori, tra sportelli bancari e edicole votive: spaventosamente saccheggia, certa della quasi totale impunità, arpionando tutto il vendibile e lo smerciabile ad acquirenti per i quali andrebbe progettata una bolgia a parte.

Dopo la denuncia accorata della mia cara amica mi ritrovai a domandarmi quale possa essere la merce furtiva così appetibile da ingolosire la canaglia a segno che si spinga nel sacrario delle memorie. Insomma, che cosa diavolo (chiedo scusa) vanno a rubare nei cimiteri a parte dei fiori sciupati, qualche lampadina o del ferro vecchio?

Rubano le pietre. Le “chianghe”, appunto. Non solo i ladri (si può dire: che Dio li stramaledica?) depredano i cimiteri, ma devastano i trulli, i palazzi d’epoca, i muriccioli a secco, le strade, i cortili per asportare le “chianghe”.

Ai pugliesi non sfugge, a questo punto, la ragione che aziona il furto perché sanno bene che cosa sono le belle pietre dei trulli e delle “cummerse”, gli splendidi “chiangoni” levigati e le calcinate tessere che compongono i mosaici dei muretti, delle cisterne, delle “neviere”, preziose fabbriche del ghiaccio. I predoni non si fermano davanti a niente e distruggono la storia di tutti noi per abbellire la mondanità privata di qualche dannato ricettatore, che fa restaurare la sua villona dopo essersi arricchito vendendo, magari, anticorodal agli sprovveduti paesani. Un signore, presidente di un’associazione ambientalista, anni or sono, ha tentato di reagire e di protestare: gli hanno fracassato l’automobile a colpi di “chianghe”. Un bell’esempio di contrappasso criminale.

A questo punto mi viene il dubbio che i delinquenti ladroni abbiano sfogliato “La Divina Commedia”.

Se così fosse dovrebbero conoscere anche quale sarà il loro destino, una volta riparati in quei cimiteri che oggi depredano: trasformati in rettili schifosi. E a noi, timidi e confusi redattori di cronache sempre più malinconiche resta, almeno il piacere di immaginare per questi ladroni un aggravio di pena: trasformati in orridi serpenti non troveranno più pietre tra le quali nascondersi, tutte rubate. Nell’attesa di giustizie celesti non mi resta che aspettare, senza troppa fiducia, un cenno da quella degli uomini seduto qui, sull’ultimo muretto a secco, quello della nostalgia