La disumanità del lavoro. E se Marx avesse capito tutto?

Karl Marx sosteneva che la disoccupazione in un sistema come il nostro è un fenomeno ineliminabile. Un "esercito di riserva" pronto a tutto.

Disoccupazione. Preferiremmo di gran lunga ricevere una martellata sugli zebedei anziché sentirne parlare e pronunciarne la parola. Politici, economisti, commentatori, giornalisti ci vengono a dire che prima o poi comparirà il sole dopo la tempesta; detassando, sforbiciando il debito pubblico, assecondando i desiderata del ceto imprenditoriale, leccando i sederi di quelli di Bruxelles e aprendoci ancor di più al mondo globalizzato. Prima o poi, dicono loro, si troverà la quadra.

Voi ci credete?

Karl Marx sosteneva che la disoccupazione in un sistema come il nostro è un fenomeno ineliminabile. Un po’ come l’aria che respiriamo. Il filosofo tedesco viveva in un’epoca storica come quella ottocentesca molto lontana dalla nostra. Tuttavia egli aveva profetizzato ciò che sta accadendo ora. “La contraddizione principale del sistema capitalistico, secondo Marx, è quella tra l’enorme sviluppo della produzione, cui esso dà luogo, e la limitata possibilità di consumo delle grandi masse, tra le quali la percentuale di occupati ha salari compressi per aumentare i profitti, e si ha inoltre una percentuale ‘strutturale’ di disoccupati, il cosiddetto ‘esercito di riserva’, che serve al sistema per tenere bassi i salari” (Mario Cingoli, “Marx”). “Esercito di riserva”. Così lo chiamava. Ovvero la marea dei disoccupati e dei sottoccupati a cui il sistema produttivo non può rinunciare se vuole perpetuarsi. Una marea pronta a tutto pur di mangiare una schifosissima minestra per non buttarsi dalla finestra.

Da una parte c’è il disoccupato. Un incapace. Colpevole della sua condizione miserrima. Un appestato a guisa di pila che non emana luce. Dall’altra parte c’è chi possiede un lavoro, bello o brutto che sia. Costui si deve considerare un “fortunato” e non può sputare nel piatto in cui mangia, non può permetterselo, correrebbe il rischio di essere sbattuto fuori. Ce ne sono tanti che aspettano un’eventuale assunzione, ovviamente sempre alle condizioni di chi manda avanti la baracca assieme ai suoi quadrati bilanci. Pertanto il fortunato con tutta probabilità si abituerà ad essere sottoposto a pressioni e minacce, magari continuerà ad accettare il suo status di sottopagato e di mal impiegato pur di non vedersi attorno eventuali competitors con la bava alla bocca. Non perdere il lavoro, costi quel che costi. Oltretutto un lavoro che il più delle volte gli risulterà metodico e impersonale e dunque avvilente: fa ciò che fa ma il più delle volte non sa il perché e se pure lo intuisce e ne prende coscienza non gliene frega niente, basta il salario e l’ottica della sopravvivenza per decretarne l’accettazione, mentre lo stress e la paura dell’emarginazione sociale e lo spettro della miseria avanzano a vento in poppa.

“Il capitale, che ha così «buoni motivi» per negare le sofferenze della generazione di lavoratori che lo circonda, nel suo effettivo movimento non viene influenzato dalla prospettiva di un futuro imputridimento dell’umanità e di uno spopolamento infine incontenibile […] Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società. Al lamento per il deperimento fisico e mentale, per la morte prematura, per la tortura dell’eccesso di lavoro, il capitale risponde: dovrebbe tale tormento tormentar noi, dal momento che aumenta il nostro piacere (il profitto)?” (Karl Marx, Il Capitale).

C’è chi lavora e chi no. E in entrambi i casi, il tempo, che Benjamin Franklin definiva giustamente come il “tessuto della vita”, sarà costretto a ridursi e scomparire. Tempo per viaggiare. Per chiacchierare. Per cucinare un piatto prelibato. Per leggere un libro. Per raccontare una favola ai propri figli. Per educarli, i figli. Per voler bene ai figli. Per far l’amore. Per scrivere. Per pensare. Per vivere. Ragion per cui l’individuo, facente parte dell’esercito di riserva di cui sopra, sottoposto al ricatto del lavoro e dell’incombenza di arrivare alla fine del mese, non si preoccupa “tanto della propria vita e felicità, quanto della sua capacità di risultare vendibile.

La finalità del carattere mercantile è il completo adattamento, in modo da apparire desiderabile in tutte le situazioni del mercato delle personalità. E le personalità del carattere mercantile neppure “hanno” un io (come pure l’avevano gli individui del diciannovesimo secolo) al quale aggrapparsi, che appartenga loro, che sia immutabile, perché devono continuamente mutare il proprio io in obbedienza al principio: «Io sono come voi mi desiderate» […] Costoro hanno scarso interesse (almeno a livello conscio) per questioni filosofiche o religiose, quali a esempio perché si vive e perché si procede in una direzione anziché in un’altra; hanno il loro io, grande e in continuo mutamento, ma nessuno di loro ha un sé, un nucleo, un sentimento di identità. La «crisi di identità» della società moderna è in realtà prodotta dal fatto che i suoi membri sono divenuti strumenti privi di un sé, la cui identità riposa sulla loro partecipazione alle aziende (o ad altre enormi burocrazie). Dove non si abbia un sé autentico, non può esservi identità” (Erich Fromm, Avere o Essere?, Mondadori, 2001).

Senza un’identità, l’individuo si svaluta, decade e muore. Dentro. Basta vedere ciò che siamo diventati. Pezzi di carne all’ammasso, con buona pace dei sentimentali, di quelli che credono ancora nell’umanità.