Prosegue il viaggio del nostro giornale alla scoperta di quelle figure di docenti che, attraverso i loro exempla, hanno consegnato un modello di formazione prezioso a tante generazioni di studenti, traghettandole verso la maturità. Ad accompagnarci in quest’avventura sarà, per questo numero, Nicola Piglionica, ex docente di lettere al liceo scientifico “Galileo Galilei”.
Se volessimo riassumere in poche battute il contenuto dell’intervista, potremmo dire che l’educazione, secondo Piglionica, deve avvenire per “fascinazione”, puntando sulle emozioni. La mente di chi insegna, deve aprirsi, in altri termini, a un’accettazione sincera del mondo emozionale dei ragazzi. Tanto più che è proprio negli anni dell’adolescenza che i giovani cominciano a guardare a se stessi e al mondo intorno con una sensibilità nuova, con un ardore psichico e sentimentale diverso, che li coinvolge interamente, portandoli a vedere in ogni cosa aspetti inediti e più esaltanti.
Partiamo dal suo curriculum. Qual è stata la sua carriera di docente?
I primi anni d’insegnamento, in verità, sono stati un po’ bizzarri. Terminati gli studi in Lettere moderne e conseguito un esame di francese all’università di Bari, chiesi l’assegnazione a un istituto della Calabria, dove all’epoca c’era una docente, mia cara amica, alla quale tutt’ora sono molto legato. Una legge entrata in vigore, proprio in quegli anni, che prevedeva la possibilità di insegnamento in un professionale, al biennio, e le sollecitazioni di mia sorella mi spinsero, tuttavia, a rinunciare all’idea. Fu così che iniziai la mia carriera come docente di francese in un professionale di Altamura. Interruppi l’insegnamento nel 1969, chiamato al servizio militare in Sardegna. Nel 1974 ebbi la possibilità di insegnare allo scientifico di Molfetta. Due anni dopo ottenni il trasferimento al “Galileo Galilei”, dove ho insegnato, dapprima italiano, storia, geografia e latino al biennio, poi italiano e latino in un quinquiennio unitario. Dai primi anni ottanta, dunque, fino al pensionamento nel 2008, tranne un anno allo scientifico di Andria, ho accompagnato intere classi in tutto il percorso scolastico.
Può tratteggiarci quelli che, a suo avviso, sono stati i cambiamenti più significativi nella scuola nel corso della sua lunga esperienza professionale?
Se devo essere sincero, devo dire che non ci sono stati mutamenti così radicali. Nei miei ultimi anni d’insegnamento ho visto la scuola protagonista di una serie di attività pomeridiane – progetti, open day, Pon – che hanno un po’ rallentato la didattica, rendendola meno efficace sul piano della formazione. Ciononostante, esperienze come il teatro, o altre, hanno sempre rappresentato per me un valido strumento di educazione e uno sprone alla socializzazione tra alunni. Per un anno, infatti, mi sono interessato al laboratorio teatrale pomeridiano. Seguire, passo dopo passo, i ragazzi nella loro crescita adolescenziale e coglierne l’amore per la scena, è stata per me un’esperienza unica e irripetibile.
Lei ha insegnato per tanti anni al liceo scientifico. È notizia di qualche settimana fa l’attribuzione al “Galilei” del terzo gradino sul podio degli istituti scientifici dell’area metropolitana di Bari, stilata dal portale Eduscopio.it e ottenuta comparando le prestazioni degli studenti diplomati sul territorio nazionale e confrontando la media tra voti e crediti, una volta avviato il percorso universitario. Che valore ha questo riconoscimento?
Fa onore all’istituto in cui per tanti anni ho insegnato. Devo riconoscere, però, che il passaggio all’università non sempre è stato privo di difficoltà per i miei ex alunni. Mi riferisco sia alle conoscenze scolastiche sia al diverso rapporto umano con i docenti. Ai miei tempi, a molti studenti universitari era garantito un posto da assistenti, offerto da quei docenti coi quali si condivideva la stessa ideologia politica. Per quanto mi riguarda, ho preferito concentrarmi sugli studi, vivendo in maniera periferica la contestazione studentesca di quegli anni. D’altra parte, a spingermi in tale direzione, concorreva la partenza per il militare, attesa a breve e avvenuta tre mesi dopo la laurea.
Le nuove tecnologie – i cosiddetti “personal media” – sono entrate prepotentemente nella vita delle nuove generazioni. La loro introduzione nelle scuole ha prodotto esiti ambigui, su cui occorrerebbe fare un po’ di chiarezza. Secondo lei l’uso di tali tecnologie è in grado di promuovere forme di socialità dotate di senso, originali e paragonabili a quelle tradizionali? O, forse, contribuisce ad alimentare tra i giovani il disorientamento diffuso che esperiamo quotidianamente?
Il progresso scientifico ha caratterizzato gli ultimi decenni in larga parte del loro tragitto. Visto il gap che separa la mia generazione dall’attuale, non ritengo, tuttavia, di poter esprimere un giudizio o una valutazione equilibrata sugli effetti e gli eventuali rischi prodotti dalle nuove tecnologie sui giovani. Ogni tipo di confronto storico tra due epoche così distanti sarebbe assolutamente fuori luogo, impossibile da instaurarsi. E ogni ripiegamento nell’orticello del passato mi sembra nostalgico: le tre dimensioni temporali del passato, presente e futuro, che scandiscono la nostra vita, infatti, non sono mai chiuse in se stesse, bensì trascendono l’una nell’altra. Per cui essere oggi significa venire da un passato e dirigersi verso un futuro. Al limite mi chiederei: in un presente dominato dall’urgenza, in cui tutto scorre scompostamente, impedendoci di vivere pienamente gli istanti presenti, è ancora possibile riflettere serenamente su quanto accade attorno a noi? La meditazione e la riflessione possono ancora ritagliarsi uno spazio in uno scenario colonizzato, in maniera ubiquitaria e onnipervasiva, dalla sindrome della fretta?
Nell’ultimo ventennio, a partire dai governi a guida Berlusconi, ha preso piede nella scuola lo slogan delle tre “i”: inglese, internet, impresa. Ritiene che questo progetto abbia dei meriti o delle colpe? Qual è la sua idea di scuola e di formazione?
Parto dalla seconda domanda. Va da sé che alcune discipline vadano promosse e tutelate nell’ambito della formazione scolastica di un liceale. Penso, soprattutto, a quelle che preparano il terreno alle future scelte universitarie. Proprio la riforma Moratti del 2003 si proponeva di dare maggior peso alla matematica e alle scienze che non al latino e all’italiano. Una scelta che ho condiviso, in quanto ritenevo fosse utile per i miei studenti vivere più concretamente il proprio percorso di studi. La peculiarità del sapere scientifico è, infatti, che non si procede mai astrattamente, partendo da principi immutabili; bensì si sottopone ogni ente di natura ad esperimento e, se esso risponde positivamente alle sollecitazioni dell’uomo, si assumeranno i risultati conseguiti come leggi di natura. In genere, gli studenti lamentano proprio la totale assenza di praticità nell’attività laboratoriale, che dovrebbe stare alla base dell’esperimento loro argomentato. Poi, è vero che parlare l’inglese è diventato oggi una necessità; ma ciò non implica che sia per forza un vantaggio. In altri termini, è sì un linguaggio molto concretistico ma del tutto incapace di fare astrazione. Ciò detto, resta la lingua della globalizzazione e, pertanto, occorrerebbe impararla sin da bambini. Aggiungo che non serve a niente riempire le nostre scuole di computer, che i ragazzi conoscono e sanno usare alla perfezione. Di conseguenza, l’alternativa che si prospetta è fra una scuola come luogo di formazione ovvero allenamento al lavoro nelle imprese, che necessitano di giovani intelligenti, responsabili, riflessivi e capaci di decisione.
Quale dovrebbe essere la virtù principale di un insegnante?
Mettersi in ascolto dei propri alunni. La mia esperienza di educatore mi ha insegnato che bisogna individuare ogni studente in quella che è la sua peculiare specificità. Pretendere il massimo rendimento da tutti, mediante un processo di oggettivazione che tenda a valutare sula base della quantità e non della qualità, è impresa ardua oltre che improduttiva. La virtù principale di un docente dovrebbe essere aprirsi all’ascolto delle richieste e necessità dei propri studenti. L’educazione deve avvenire per “fascinazione”: la nostra mente deve aprirsi a un’accettazione ponderata del loro mondo emozionale.
C’è una differenza, secondo lei, fra una scuola che punta ad “istruire” e una che mira ad “educare” i suoi studenti? Se sì, com’è possibile mettere in pratica questo modello?
Se le classi sono formate mediamente da trenta persone, è impossibile “educare”. Al limite si potrà “istruire”, facendo passare meri contenuti intellettuali. Si potrà, cioè, solo trasmettere un sapere, niente di più. L’educazione, invece, parte dai sentimenti. Che non sono soltanto un dato naturale, ma si sviluppano anche attraverso la cultura. Sono contrario all’idea che la scuola debba insegnare direttamente quelle competenze particolari e quelle specificità che si dovranno poi impiegare nel mondo del lavoro. Le esigenze della vita sono, infatti, troppo multiformi perché una scuola possa permettersi un tale addestramento specialistico. Bisognerebbe sempre dare priorità allo sviluppo di una capacità generale di pensiero e di giudizio indipendente; non puntare all’acquisizione di una competenza specialistica. Se una persona padroneggia i fondamenti della materia e ha imperato a pensare e a lavorare in modo indipendente, sicuramente se la caverà e sarà, inoltre, più capace di adeguarsi al progresso e ai cambiamenti di un altro suo coetaneo, il cui addestramento sia consistito principalmente nell’acquisizione di una conoscenza dettagliata.
Da un po’ di anni a questa parte è in corso un’evidente rivalutazione della formazione umanistica, che si sostanzia nei continui riferimenti, ad opera di molti studiosi interdisciplinari, a temi quali felicità, benessere, pratiche dialogiche, consapevolezza, orientamento. In che modo questa prospettiva può promuovere la costruzione di un futuro migliore per la scuola? E come, secondo lei, entrambi i saperi, quello umanistico e quello scientifico, possono, seppur a geometrie variabili, intrecciarsi fecondamente fra loro?
Occorre farla finita con la favola della scienza neutrale che offre solo i mezzi che, poi, gli uomini decidono di impiegare nel bene e nel male. La scienza non è affatto neutra, perché crea un mondo con determinate caratteristiche che non possiamo evitare di abitare e, abitandolo, acquisirne gli strumenti per una vita qualitativamente migliore. La scienza è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono scientificamente articolati e hanno bisogno della scienza per esprimersi. E siccome il funzionamento della scienza è diventato planetario, non più cioè solo un destino occidentale, occorrerà rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo e anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l’età pretecnologica e che ora, nel nostro presente e soprattutto nel futuro, dovranno essere riconsiderati, dismessi o rifondati alle radici. Pertanto, su questo insieme di questioni dovremmo avere un atteggiamento, un po’ scettico, di “sospensione del giudizio”. Perché la nostra capacità di prevedere supera ormai di gran lunga ciò di cui siamo a conoscenza.
Quale indirizzo consiglierebbe a un ragazzo in procinto di intraprendere una carriera scolastica? Umanistico o scientifico?
Riformulerei così la sua domanda: quale aspetto del mondo antico è ancora attuale o può interessare un giovane liceale? Tutto, in realtà, è attuale. Ma non nel senso che tutto direttamente ha un interesse per noi. Tengo a precisarlo: attualizzare l’antico è una sciocchezza, perché equivarrebbe a compiere un’opera di mistificazione. L’antico resta quello che è stato. Al massimo è attuale nel senso che, appunto, rileggerlo alla luce del presente ci permette di riflettere sulla nostra contemporaneità. Il che è ben diverso dall’affermare che è la stessa cosa del passato. Studiare il mondo antico, quindi, è come fare un viaggio in un paese straniero, dal quale impariamo a scorgere le opportune differenze, capendo come gli antichi hanno agito diversamente da noi. Pertanto, la tradizione non è altro che la memoria o selezione delle operazioni felicemente riuscite e ritenute vantaggiose per una comunità: la nostra comunità, quella umana. Trovare la propria autorealizzazione, quella che i greci chiamavano “eu-dimonìa”. Essa consiste nell’espandere il più possibile il piacere, la curiosità e il gusto di conoscere, nel momento in cui sopraggiunge la vita, ovvero, quando sopraggiunge il dolore, di astenersi e di non osare metterlo in scena. Allora, forse, per un giovane si aprono nuove prospettive di senso.