È il 1901 quando l’austriaco Ludwig Hatscheck brevetta il cemento-amianto, ribattezzato eternit, attingendo al latino aeternitas (eternità), per rimarcarne l’elevata resistenza.
La produzione di lastre e tegole per l’edilizia, realizzate con questo materiale, inizia già nel 1903 nel cuore dell’Europa.
Nel 1935 la società Fibronit avvia la produzione di eternit a Bari, portandola avanti fino al 1985, nel cuore della città, a ridosso del centro murattiano. Già agli inizi degli anni sessanta è noto che la polvere di amianto, dispersa in grande quantità nell’ambiente circostante il sito di produzione e, addirittura, usata come materiale di fondo per i selciati, provoca l’asbestosi e una delle più gravi forme di cancro: il mesotelioma pleurico. Ma ci vorranno oltre vent’anni per fermare il “mostro” che, nel frattempo, sta iniziando a produrre le sue vittime, considerando che il periodo di incubazione della malattia può essere anche trentennale. Primi fra tutti, gli operai che ci lavorano e poi i loro familiari “contagiati”, per esempio, dall’abitudine di lavare i panni di lavoro insieme al resto degli indumenti.
Ad un certo punto si verifica un aumento esponenziale dei casi di tumore anche nelle abitazioni vicine alla fabbrica, quelle costruite a ridosso della stessa e spesso vendute come “appartamenti” di pregio in quartieri residenziali.
Ma il lavoro, che come recita l’art.1 della Costituzione dovrebbe essere il fondamento della Repubblica, viene utilizzato come “arma ricattatoria” per condizionare le scelte delle pubbliche amministrazioni, imponendo soluzioni dilatorie che mirano a salvaguardare i livelli occupazionali.
Intanto, il tempo scorre e i malati di cancro aumentano fino a che non arriva un giudice coraggioso che decide di fermare il “mostro”. Alla fine, l’amianto del cementificio avrà causato la morte di 180 dipendenti e, nel corso degli anni, di 700 residenti nella zona. Per non dire del rischio a cui sono stati esposti gli 80mila abitanti del quartiere Japigia.
Succede a Bari, come a Bagnoli e a Broni, in Piemonte, e come potrebbe succedere anche a Taranto.
Il resto è storia più recente: la bomba ecologica “piantata” in mezzo alla città viene disinnescata: l’area confiscata e con una legge dello Stato, una volta ripulita dalle scorie, destinata a parco pubblico.
Altro tempo (quasi tre anni) si perde con gli infiniti ricorsi al Tar delle imprese che hanno gareggiato per ottenere la commessa della bonifica.
Oggi i lavori per la messa in sicurezza sono quasi conclusi: la fabbrica è stata abbattuta e i residenti della zona possono finalmente respirare.
E ai bambini che stanno per nascere potremo raccontare la favola lieta del “mostro” definitivamente sconfitto.