Il vescovo Leucio al servizio di papi e re

A capo della diocesi bitontona tra il 1282 e il 1316, fu l'artefice della costruzione di San Francesco della Scarpa

Nella mia pluridecennale storia di responsabile dell’Archivio diocesano ho conosciuto tanti personaggi colti e meno colti, curiosi e studiosi di alto livello. Mi è anche capitato di essere quasi custode di quel grande complesso monumentale che fu la chiesa e il convento di san Francesco della Scarpa, per anni abbandonato all’oblio e al vandalismo.

Si pensi solo alla profanazione di tante sepolture, nell’intervallo di qualche raro intervento di risanamento, che in realtà tale non era, almeno fino a quando, nel 1995, non fu il Centro Ricerche a prendere la situazione nelle mani.

Nella devastazione imperante sono riuscito a recuperare dalla chiesa il corpo mummificato di un vescovo, che ho conservato per anni in un ambiente riservato, finchè, a restauro ultimato dell’abside, sono riuscito a deporre per sempre in un vano sepolcrale ben sigillato. Mi sono ritrovato, per caso, dunque, a salvare dalla barbarie i resti mortali di mons. Leucio, che diede avvio alla storia della chiesa di san Francesco d’Assisi assieme a Sergio Bove sul finire del secolo XIII.

Davvero travagliato fu l’episcopato di mons. Leucio, a capo della chiesa bitontina tra il 1282 e il 1316, nel periodo in cui con gli angioini l’istituzione ecclesiastica aveva trovato buoni alleati e le violenti contese del tempo degli Svevi erano terminate. Personaggio di notevole levatura, meritò la stima dei re di Napoli e degli stessi pontefici, che a lui affidarono il compito di dirimere questioni particolarmente complesse in campo politico e religioso. Dal re di Napoli fu inviato in Ungheria al fine di ottenere la fedeltà dei baroni a Maria, sorella di Ladislao e moglie di Carlo II D’Angiò. Gli fu affidato anche il compito di organizzare il giustizierato in Basilicata e di definire i confini del territorio di Montemilone. Fu arbitro, delegato dal papa, nella controversia tra il vescovo di Gravina e l’arciprete di Altamura circa le pretese del primo di godere di pieni diritti giurisdizionali sulla chiesa altamurana, ancor più da quando gli angioini avevano unito quest’ultima al tesorierato di san Nicola di Bari. Una soluzione di compromesso fu quella offerta da Leucio, dopo lunghissimi procedimenti giudiziari. Poche tracce, queste, di un impegno continuo e a vasto raggio del nostro vescovo che, però, manco a dirlo, nella sua diocesi, a Bitonto, ebbe non poco filo da torcere.

Da buon francescano, fin dal suo arrivo, coltivò il proposito di un insediamento dell’ordine religioso di sua appartenenza. Una bella ed encomiabile iniziativa che avrebbe meritato il plauso del clero locale. E, invece, fu motivo della prima grave frattura con lo stesso. Leucio, dunque, ottenne dall’abbadessa di Santa Lucia un pezzo di terreno che, unito a un altro, acquistato da una prima comunità di frati nei pressi del Castrum da Costanza Castanea, costituì lo spazio idoneo per la costruzione della chiesa e del convento. Appena si pose mano all’opera un gruppo di canonici e di presbiteri si recarono sul posto e vennero alle mani con i frati, cacciando a malo modo gli operai dal cantiere e occupando spazi e ambienti in fase di edificazione. Su denuncia dei frati, papa Niccolò IV fu costretto a chiedere l’intervento dell’arcivescovo di Brindisi per imporre una tregua tra le parti. Ma quali i veri motivi della contesa se non il timore da parte del clero bitontino che parte dei lasciti e benefici che finora erano stati loro appannaggio potessero finire nelle mani dei francescani? Clamoroso il tentativo dei canonici di sottrarre ai francescani il corpo di un defunto per officiarne il rito funebre in cattedrale.

Ma fu solo una tregua: pochi anni dopo un episodio gravissimo causò l’allontanamento del vescovo dalla sua diocesi. Accuse infamanti furono rivolte ancora dal clero contro di lui e a Roma fu inviata una denuncia circostanziata circa le sue presunte malefatte: concubinato, usura, simonia, commercio con i saraceni, contravvenzione alle leggi ecclesiastiche. Anche questa volta una grande montatura, determinata dalla decisione del vescovo di privare di ogni beneficio alcuni personaggi del clero, particolarmente in vista, e scomunicarli insieme alle loro famiglie sino alla quarta generazione.

Cos’era successo in realtà? Si trattava di una decisione presa in conseguenza di un tentato omicidio, organizzato nei suoi confronti da alcuni canonici, dall’arciprete e il sacrista che inviarono dei sicari, notte tempo, nel palazzo vescovile. Leucio, in realtà, doveva nutrire già da tempo fondati sospetti: si era circondato, infatti, di guardie del corpo che reagirono al tentato omicidio, rimanendo a loro volta vittime. Il vescovo mise in atto nei confronti dei sospetti mandanti privazione dei beni e scomunica, condannandoli, di fatto, alla morte morale e fisica. Di qui la denuncia al papa che, male informato, sospese dal suo ufficio Leucio dopo un’indagine condotta dal vescovo di Gravina, Giacomo, che certo non fu imparziale nel suo giudizio, risentito certamente dell’esito delle decisioni adottate nei suoi confronti da Leucio, nella contesa sulle sue pretese sulla chiesa di Altamura.

Leucio rimase sospeso e fuori diocesi dal 1300 al 1306, quando riuscì a dimostrare le sue buone ragioni e fu reintegrato da Clemente IV in tutti i suoi diritti e benefici, compresi quelli che aveva perduto nel tempo della sua assenza. Continuò fino al 1316 a svolgere importanti incarichi diplomatici e a svolgere un ruolo di prestigio nella regione dove fu chiamato ancora a risolvere diversi problemi. A Bitonto benedisse le chiese di Sant’Eligio e San Nicola, come pure quella di San Nicola dell’Ospedale. Non poté non mancare all’inaugurazione e benedizione del maestoso tempio di San Francesco della Scarpa, da lui fortemente voluto e in cui decise di essere sepolto, lasciando lì l’unica traccia della sua esile immagine in una lastra sepolcrale.